TORINO – L’incredibile amicizia nata fra il Chico Ferreira, allora capitano di Benfica e Portogallo, e Valentino Mazzola, capitano del Torino e della nazionale azzurra, era disinteressata. Un’amicizia dannatamente bella, di quelle che raramente nascono nel calcio. É il 1949, fine febbraio. Italia e Portogallo si sono appena sfidate a Genova. La gara è terminata 4-1 in favore degli azzurri e Mazzola e Ferreira stanno ora parlando nel post-partita. É il loro primo incontro ma i due sembrano conoscersi da anni.
Entrarono talmente tanto in sintonia quel giorno che Ferreira scelse proprio il Gran Torino, quello del quinquennio aureo pentascudettato, come avversario della ‘Coppa Olivetti’, una gara amichevole giocata a Lisbona in maggio. La data della gara è fissata per il 3 maggio 1949. Il tempo di pareggiare 0-0 contro l’Inter a Milano e prendere il volo proprio dalla città lombarda e andare a Lisbona. É il primo maggio 1949.
Due giorni dopo, la gara. Di fronte a una folla di quarantamila spettatori, allo Stadio Nazionale di Lisbona si affrontano Benfica e Torino, gara che terminerà 4-3. Gara disputata nell’assoluta correttezza, e quell’abbraccio a fine partita fra il Chico e Mazzola lo testimonia. Un abbraccio, un patto di fraterna amicizia, l’ultimo vero atto, l’ultima testimonianza oltre alle parole scambiate nel post partita.
Già, perché è sorto il sole su Lisbona ed è già 4 maggio. Il Torino deve ripartire per l’Italia a bordo del trimotore FIAT G. 212 delle Aviolinee Italiane. Abbandonati i cieli portoghesi, sorpassati quelli spagnoli e oltrepassate le Alpi, a Torino una fitta nebbia aspettava il G. 212. Abbandonata la rotta per la scarsissima visibilità, alle 17:05 il trimotore si schianta contro i muraglioni eretti a sostegno dei giardini sul retro della Basilica di Superga.
Si è consumata la tragedia. Delle trentuno persone a bordo, nessuno sopravvive. L’evento risuona in tutto il mondo e non poteva accadere altrimenti. La formazione del Torino era ciò che di più meraviglioso il calcio contemporaneo possa ricordare, un’armata inossidabile, una sentenza acclamata ogni volta che il Grande Toro metteva piede in campo. Un milione di persone accompagnò il corteo funebre e lo spavento spinse la nazionale italiana ad affrontare un viaggio in nave di tre settimane per giocare i mondiali in Brasile.
Sono trascorsi sessantotto anni da quella giornata indimenticabile. Come disse Indro Montanelli “Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta”.
Ci piace ricordarlo così il Gran Torino, come una squadra impegnata nella trasferta più importante della sua storia. Nessuno muore davvero se sulla Terra il ricordo è vivo e arde di fiamma divampante, e la fiamma del Torino non si è mai spenta. Tutto il mondo tributa oggi quella gloriosa formazione e continua a ricordarla giorno dopo giorno.
É una giornata nuvolosa su Torino oggi. Tra le nuvole grigie spunta qualche raggio di sole che torna a ricordarci che il cuore di quella squadra è tutt’oggi pulsante e vive di luce propria. Vandone, Motto, Mari, Macchi, Ferrari, Lussu, Giuliano, Francone, Marchetto, Giammarinaro, Balbiano. È questa la formazione che il 15 maggio 1949, in uno stadio Filadelfia stracolmo, salì le scale che dagli spogliatoi portavano in campo.
Undici ragazzi, la maggior parte poco più che diciottenni, cui il destino aveva affidato un compito immenso: portare a termine il campionato 1948/49 e sostituire quella squadra leggendaria che era il Grande Torino. Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola: undici cognomi già entrati nella storia del calcio. Che avevano infiammato Torino e il Filadelfia e che la tragedia di Superga, il 4 maggio, aveva portato via.
A cura di Riccardo Varveri
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