Attraverso l’arte è possibile scoprire e approfondire la conoscenza di mondi lontani, completamente diversi da quello europeo od occidentale perché anche altri paesi ritenuti distanti dalla culla della cultura, hanno avuto un proprio percorso espressivo, diverso eppure altrettanto rilevante di quello di cui si conoscono maggiormente gli sviluppi. Nella contemporaneità molte voci rilevanti del panorama artistico internazionale stanno pertanto donando una propria versione della vita che svela abitudini, usi e costumi differenti con stili pittorici innovativi ma in qualche modo collegabili e riconducibili alle linee guida di alcuni dei movimenti più fuori dagli schemi che a suo tempo avevano destabilizzato i salotti culturali europei.
L’artista di cui vi racconterò oggi appartiene a un mondo affascinante e per alcuni versi sconosciuto nelle sue sfaccettature e attraverso la sua pittura si propone di raccontare la vita nel suo continente, l’Africa, in grado di suscitare curiosità e riflessioni su quanto la sua normalità sia più rilassata e a misura d’uomo, eppure i suoi abitanti non riescono a sfuggire al richiamo di quella modernità globalizzata che fa giù parte dei paesi del nord del globo.
L’attrazione verso tutto ciò che appariva esotico emerse in maniera particolarmente diffusa a partire dalla fine del Diciannovesimo secolo, quando la maggiore facilità di spostamento indusse molti artisti europei a compiere viaggi di scoperta di culture, in particolar modo quelle del vicino continente africano, riscontrabili poi nella raffigurazione delle opere di alcuni dei maggiori autori del Novecento. I Fauves, in particolare Henri Matisse e André Derain, si ispirarono alle maschere africane per realizzare alcune tra le loro opere più celebri, tanto quanto per Pablo Picasso fu fondamentale l’approccio al Primitivismo per elaborare il suo Cubismo che ebbe ufficialmente inizio con l’opera Les Demoiselles D’Avignon in cui i volti delle donne erano visibilmente geometrizzati proprio come nelle iconografie tipiche dell’Africa centrale e orientale; stessa radice ebbero i particolari e inconfondibili dipinti di Amedeo Modigliani, le cui donne dai lunghi colli non potevano non ricondurre a quel mondo di nuova scoperta dal punto di vista figurativo e culturale che tanto stava dando al mondo dell’arte.
Ma l’attrazione verso l’esotico contraddistinse anche un altro grande maestro di quel periodo, il padre del Naïf Henri Rousseau, che raccontava di un mondo sconosciuto quanto affascinante, sebbene le sue ambientazioni fossero più legate alla giungla che non alla savana africana. È stato tuttavia proprio lo stile ingenuo e spontaneo del Naïf a trovare maggiore diffusione in tutti quei creativi che per limiti geografici non avevano avuto modo di avere una formazione accademica pur avvertendo la necessità di manifestare il loro impulso creativo, infatti l’America Latina ebbe grandi esponenti di questa corrente artistica soprattutto tra le persone di colore, emigrate forzatamente dal loro paese natale, o tra coloro che vollevano raccontare la realtà nella sua purezza, nella sua quotidianità semplice e spontanea la quale lasciava emergere abitudini e modi di intendere la vita completamente diversi da quelli occidentali. Gli haitiani Joseph Jasmin, Alexandre Grégoire ma soprattutto Yvon Jean Pierre, con i loro colori vivaci e accesi riuscirono a lasciare una profonda traccia della vita di un popolo in grado di trarre il bello anche nelle difficoltà e nella povertà, oltre a testimoniare quanto quel tipo di arte fosse affine a un approccio pittorico genuino e non inquinato da alcuna regola prestabilita, così come all’espressività delle orgini africane che Haiti racchiude in sé. È proprio questo il segno più evidente dei dipinti di Isaac Zavale, artista originario del Mozambico ma cresciuto in Sud Africa, che mostra una forte impronta Naïf più vicina, tuttavia, a quella del Sud America dove i personaggi sono più grandi rispetto al mondo miniaturizzato degli autori citati precedentemente, prendendo spunto dal francese Camille Bombois e dall’italiano Antonio Ligabue ma inserendo nei suoi dipinti tutto quel sapore autentico di vita delle città africane, quelle abitudini insolite per l’osservatore abituato all’arte occidentale eppure familiari perché simili a quelle conosciute e appartenenti a un passato lontano ma non abbastanza da essere dimenticato.
La centralità delle opere di Isaac Zavale è la quotidianità, la vita di tutti i giorni in un continente, quello africano, che è incredibilmente sfaccettato e variegato perché molteplici sono le influenze e le caratterizzazioni dei differenti paesi che lo compongono; in lui la cultura del Mozambico, appartenente alle sue radici familiari, si mescola alla modernità delle città sudafricane in cui è cresciuto e di cui ha vissuto periodi complessi, come quello della segregazione, ma anche la bellezza di un’esistenza dai ritmi lenti, rilassati e privi dell’arrivismo che contraddistingue la società attuale.
Dal punto di vista formale le opere hanno colori pieni e vivaci, quasi a sottolineare la tradizione fatta di contrasti cromatici della sua gente, la prospettiva è piatta in perfetto stile Naïf ed espressionista, le scene sono prese dalla strada, perché è esattamente lì che si sofferma lo sguardo affascinato dell’artista che riesce a mettere in risalto il caos cittadino quasi in contrasto con l’andamento lento delle persone.
Isaac Zavale mostra una narrazione pittorica ironica, perché a volte si prende gioco dei suoi personaggi, ritraendoli in pose improbabili, altre invece mostra il desiderio di adeguarsi alla velocità e al consumismo del mondo moderno, lasciando affiorare l’interrogativo latente se sia davvero un bene modificare così tanto la società africana fino a indurla a snaturarsi nella sua essenza.
In Zulu Lamboginis emerge esattamente questo punto di vista ambivalente dell’artista, perché l’uomo che cammina davanti al parcheggio di un centro commerciale, dove spiccano insegne di grandi marchi globali accanto a quelle di attività locali, sembra essere in bilico tra il desiderio di mantenere la propria autenticità e quello di lasciarsi andare a valori diversi in cui il benessere ha trasformato il possesso di oggetti in fulcro irrinunciabile della vita. Le auto nuove e tutte apparentemente uguali sottolineano la spinta al conformarsi delle persone che vedono la capacità d’acquisto come un obiettivo, un bellissimo sogno di cui però non riescono a intuire il risvolto a volte negativo di un materialismo che appiattisce il senso dell’essere. La tela High Point Kitchen
5 High Point Kitchen – acrilico su tela, 79,5x108x4,5cm
sposta lo sguardo invece su un’altra realtà, quella dei sobborghi dove il desiderio di adeguarsi ai tempi contemporanei è lasciata alla pubblicità sul lato del palazzo e sul marchio Nike della sacca di un uomo, con molta probabilità contraffatta perché in quei luoghi il tenore di vita non consente a chiunque di poter acquistare quel tipo di prodotto, in particolar modo se vive in quartieri periferici e popolari a cui la scena riprodotta sembra appartenere. Il negozio a cui è intitolata l’opera è chiuso e Isaac Zavale lo ha ritratto nel momento precedente all’apertura, o in quello immediatamente successivo, mentre le persone sono in attesa di tornare a casa, oppure nel secondo caso di poter finalmente concedersi un pasto; accanto alla porta di ingresso al locale l’insegna sul muro di un barbiere per uomini, mentre sul lato sinistro dell’opera un bambino, supervisionato da un’indulgente mamma, si accovaccia per espletare un bisogno fisico, possibilità che in Africa è ancora concessa mentre nell’avanzato e avanguardista Occidente non sarebbe assolutamente tollerata. L’artista dunque sottolinea e mette l’accento su quelle differenze, da un lato invocando una rapida evoluzione della società che permetta alle persone di trovare un benessere maggiore, dall’altro riflettendo su quanto le innovazioni possano deviare da un’autenticità che resta la bellezza più profonda di un popolo con una forte personalità e con valori molto radicati i quali verrebbero allontanati in virtù dell’inseguimento di altri meno fondamentali.
Sister sister I mostra quindi le abitudini prevalentemente africane di proporre acconciature tipiche lungo la strada, dove un passante può trovare un’offerta affine alle sue esigenze anche quando non era stata prevista nella sua giornata; le ragazze sedute sembrano essere protette da un uomo, e attraverso quella presenza Isaac Zavale mette in luce la natura prevalentemente matriarcale della sua cultura malgascia, dove la donna è in alcuni casi persino assimilata a una dea da venerare e da tenere in massima considerazione.
Dietro di loro le tracce dell’esistenza, le auto parcheggiate, i bidoni della spazzatura, le insegne sui muri, che mettono in contrasto l’atteggiamento di paziente e lenta attesa dei protagonisti con una vita che scorre in sottofondo in maniera solo intuitivamente più caotica. Isaac Zavale è un artista, muralista e co-fondatore del Mozambico Prints on paper studio, si è laureato all’Artist Proof Studio e attualmente vive e lavora a Berlino; ha partecipato a numerose mostre collettive sia a livello locale che internazionale.
Isaac Zavale’s scenes of African life, between Naïf and Expressionism to tell the everyday life of his land
Through art it is possible to discover and deepen one’s knowledge of distant worlds, completely different from that of Europe or the West because even other countries thought to be distant from the cradle of culture have had their own expressive path, different and yet just as relevant as the one whose developments we are most familiar with. In contemporary times, many relevant voices in the international art scene are therefore giving their own version of life that reveals different habits ans customs with innovative pictorial styles but somehow linkable and traceable to the guidelines of some of the more out-of-the-box movements that had destabilized European cultural salons in its time.
The artist I am going to tell you about today belongs to a world that is fascinating and in some ways unknown in its facets, and through his painting he sets out to tell the story of life on his continent, Africa, capable of arousing curiosity and reflections on how much more relaxed and human-scale its normality is, yet its inhabitants are unable to escape the lure of that globalized modernity that is down part of the countries of the northern part of the globe.
The attraction to anything that appeared exotic emerged in a particularly widespread way from the end of the nineteenth century, when the increased ease of travel led many European artists to embark on voyages of discovery of cultures, especially those of the neighboring African continent, found later in the depiction of the artworks of some of the greatest authors of the twentieth century. The Fauves, in particular Henri Matisse and André Derain, were inspired by African masks to create some of their most famous works, much as Pablo Picasso‘s approach to Primitivism was fundamental to elaborating his Cubism, which officially began with the painting Les Demoiselles D’Avignon in which the women’s faces were visibly geometric just as in the iconographies typical of Central and East Africa; the same root had the distinctive and unmistakable paintings of Amedeo Modigliani, whose women with long necks could not help but lead back to that world of new discovery figuratively and culturally that was giving so much to the art world.
But the attraction to the exotic also distinguished another great master of that period, the father of the Naïf Henri Rousseau, who told of a world as unknown as it was fascinating, although its settings were more related to the jungle than to the African savannah. However, it was precisely the ingenuous and spontaneous style of Naïf that found greater diffusion among all those creatives who, due to geographic limitations, had not been able to have an academic education while feeling the need to manifest their creative impulse, in fact, Latin America had great exponents of this artistic current especially among people of color, who had been forcibly emigrated from their native country, or among those who wanted to portray reality in its purity, in its simple and spontaneous everyday life which allowed to emerge habits and ways of understanding life that were completely different from those in the West.
The Haitians Joseph Jasmin, Alexandre Grégoire but above all Yvon Jean Pierre, with their bright and vivid colors succeeded in leaving a profound trace of the life of a people capable of drawing beauty even in hardship and poverty, as well as testifying to how much that kind of art was akin to a genuine pictorial approach unpolluted by any pre-established rules, as well as to the expressiveness of the African origins that Haiti encapsulates. This is precisely the most obvious mark of the paintings of Isaac Zavale, an artist originally from Mozambique but raised in South Africa, who shows a strong Naïf imprint closer, however, to that of South America where the characters are larger than in the miniaturized world of the previously mentioned authors, taking his cue from the French Camille Bombois and the Italian Antonio Ligabue but inserting in his paintings all that authentic flavor of life in African cities, those habits unusual for the observer accustomed to Western art and yet familiar because they are similar to those known and belonging to a past distant but not enough to be forgotten.
The centrality of Isaac Zavale‘s paintings is the everyday, the daily life in a continent, the African one, which is incredibly multifaceted and varied because manifold are the influences and characterizations of the different countries that compose it; in him the culture of Mozambique, belonging to his family roots, is mixed with the modernity of the South African cities in which he grew up and of which he experienced complex periods, such as that of segregation, but also the beauty of an existence with slow, relaxed rhythms free of the arrivism that characterizes today’s society. Formally, the artworks have full and vivid colors, as if to emphasize the tradition made of chromatic contrasts of his people, the perspective is flat in perfect Naïf and expressionist style, the scenes are taken from the street, because that is exactly where the fascinated gaze of the artist lingers, who manages to highlight the city chaos almost in contrast to the slow pace of the people. Isaac Zavale displays an ironic pictorial narrative as he sometimes makes fun of his protagonists, portraying them in improbable poses, while at other times he shows a desire to adapt to the speed and consumerism of the modern world, letting the latent question surface as to whether it is really a good thing to modify African society so much to the point of causing it to distort its essence.
In Zulu Lamboginis emerges exactly this ambivalent viewpoint of the artist, as the man walking in front of the parking lot of a shopping mall, where signs of big global brands stand out next to those of local businesses, seems to be poised between the desire to maintain his own authenticity and the desire to let go of different values in which affluence has turned the possession of objects into the indispensable centerpiece of life. The new and all seemingly identical cars underscore the drive to conform of people who see the ability to buy as a goal, a beautiful dream of which, however, they fail to grasp the sometimes negative implication of a materialism that flattens the sense of being. The canvas High Point Kitchen shifts the gaze instead to another reality, that of the suburbs where the desire to conform to contemporary times is left to the advertisement on the side of the building and on the Nike brand of a man’s bag, most likely counterfeit because in those places the standard of living does not allow anyone to be able to buy that kind of product, especially if they live in suburban and working-class neighborhoods to which the reproduced scene seems to belong.
The store for which the artwork is named is closed, and Isaac Zavale has portrayed it in the moment before it opens, or in the moment immediately after, as people are waiting to go home, or in the second case to finally be able to indulge in a meal; next to the entrance door to the establishment is the sign on the wall of a barbershop for men, while on the left side of the work a child, supervised by an indulgent mother, squats down to fulfill a physical need, a possibility that in Africa is still allowed while in the advanced and avant-garde West it would not be tolerated at all. The artist therefore emphasizes and stresses those differences, on the one hand calling for a rapid evolution of society that would allow people to find greater well-being, and on the other hand reflecting on how innovations can deviate from an authenticity that remains the deepest beauty of a people with a strong personality and deep-rooted values that would be pushed away by virtue of the pursuit of other less fundamental ones. Sister sister
I thus shows the predominantly African habits of proposing typical hairstyles along the street, where a passerby can find an offering akin to his needs even when it had not been planned in his day; the seated girls seem to be protected by a man, and through that presence Isaac Zavale highlights the predominantly matriarchal nature of his Malagasy culture, where the woman is in some cases even likened to a goddess to be worshipped and held in the highest regard. Behind them the traces of existence, the parked cars, the garbage cans, the signs on the walls, which contrast the protagonists’ attitude of patient, slow waiting with a life that flows only intuitively more chaotically in the background. Isaac Zavale is an artist, muralist and co-founder of the Mozambique Prints on paper studio, a graduate of the Artist Proof Studio and currently living and working in Berlin; he has participated in numerous group exhibitions both locally and internationally.
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