REGGIO EMILIA – Un’amica reggiana, Anita, assistente sociale “non stop” che vive solo per gli altri (quando le dico di pensare un po’ alla sua vita, a trovarsi un uomo, a metter su famiglia, me ne dice di tutti i colori…), ha voluto a tutti i costi che incontrassi Andrea, un giovane figlio di separati che la mia amica ha avuto “in osservazione” e col quale ha mantenuto una gran bella amicizia.
Dice Andrea:
“Tutti, intorno a me, vorrebbero che io andassi in crisi, a parte Anita, la nostra amica comune… E ogni volta che arriva una festa comandata, o una semplice domenica, le domande si moltiplicano. Ti senti solo? Hai notizie di tuo padre? E tua madre come si comporta con te? Io li sto a sentire tutti. Do qualche risposta vaga. Ma dentro sono tranquillo. Mi sono fatto una ragione della mia condizione. Essere figlio di separati non è una condanna, è un sfida anticipata con la vita. Avevo nove anni quando mio padre e mia madre hanno cominciato a battagliare ogni giorno. I primi tempi, ascoltavo dietro la porta le loro scenate. Litigavano per motivi banali. Ma il disaccordo era profondo. Mio padre rimpiangeva la libertà di quando era scapolo, voleva frequentare gli amici quasi ogni notte. Passava le ore davanti al televisore a seguire le partite di calcio. E mia madre protestava in continuazione. Anche lei reclamava la sua indipendenza. Anche lei aveva le sue amiche che la cercavano, che la trascinavano in serate penso molto noiose a teatro. Ma non c’era gelosia tra i due. Credo che né lui né lei abbiano mai avuto un amante. Forse avrei preferito che ci fosse stata una scintilla di passione nella loro storia andata male. Macchè. Si dilaniavano con discorsi ripetitivi. E io là, nel mezzo. Un weekend dai nonni, un altro a casa di amici, e un altro da solo, guardato a vista da una baby sitter improvvisata. Dopo quelle scenate, a turno, mio padre e mia madre mi avvicinavano segretamente. Prima si sfogava lui, che arrivava persino a piangere, a stringermi forte al petto. A chiedermi perdono di non so che cosa. Cresci in fretta, mi diceva, così soffri di meno. Io capivo e non capivo. Perché dovevo bruciare le tappe di questa esistenza che va osservata, ascoltata e anche goduta attimo dopo attimo?”.
Andrea, parla velocemente e prosegue:
“Poi toccava a mia madre: lei mi guardava, in silenzio. Poi mi raccontava di quando ero appena nato. Diceva che in sala parto sorridevo col dito in bocca. Non ho nemmeno pianto quando ho visto la luce. Mi raccontava dei primi giochi, di come digerivo in pochi minuti tutte le pappe che mi preparava. Non veniva mai su con gli anni, non affrontava i problemi. Restava lontana. Ai momenti dei sogni. Adesso, a tavola, quando ci ritroviamo tutti e tre insieme la domenica, parlano come due conoscenti, nemmeno come due parenti lontani. Bollette del telefono, vestiti da comprare per la nuova stagione, e i miei studi. Io vivo con mia madre. Lo vuole la legge, e forse lo voglio anch’io. Perlomeno parla poco, mi lascia una libertà totale di azione. Mio padre compare nei fine settimana, due volte al mese. E’ puntuale, non salta un turno programmato dal giudice. Qualche anno fa, mi portava in un ristorante di lusso, quasi a pagare col denaro le mie sofferenze. Poi entravamo in un cinema, il primo che capitava, e ci sorbivamo un film. Dopo un quarto d’ora, lui si addormentava E io restavo solo con quegli attori freddi sullo schermo”.
Chiedo ad Andrea se parla mai con papà e mamma del suo futuro.
Il giovane risponde sorridendo:
“Ogni tanto, quando ci ritroviamo tutti e tre, mi chiedono cosa farò dopo la maturità. Se mi iscriverò ad architettura, o a legge. Loro si preoccupano che la mia anima possa trovare pace o guerra grazie agli studi. Ma non sanno che mi sono fatto una ragione di tutto il terremoto in cui mi hanno costretto a vivere. Che sono corazzato. E che a questo punto posso iscrivermi indifferentemente ad architettura o a legge. Credo che non siano le professioni a fare gli uomini, ma gli uomini a fare le professioni. E allora do soddisfazione a mio padre e a mia madre, facendomi vedere preoccupato, incerto… ma dentro ho la scorza, non riesco più a soffrire. Ho pianto troppi anni in silenzio mentre la baby sitter dormiva davanti al televisore. Non so se ho pianto con lacrime o senza lacrime. So che dentro sono arrivato a disperarmi. Ma adesso sono pronto. Vorrei soltanto essere lasciato in pace. E vorrei soltanto non innamorarmi mai della donna sbagliata. O il contrario. Non vorrei essere io a sbagliare con la donna giusta. La coppia è al cinquanta per cento. Per questi ho perdonato a metà mio padre e mia madre. E ho condannati a metà tutti e due. Io sto nel mezzo. Io vivo. Riesco a sognare, credo in qualcosa di divino, e so che il destino mi aiuterà dopo tante frustate. Forse, facendomi pagare cara la giovinezza, i miei genitori mi hanno spianato la strada per la maturità. Se è vero che il destino si accanisce nella prima parte o nella seconda della vita, io avrò tanti anni in discesa davanti, dovrò solo frenare per non rotolare verso un istante di felicità che deve arrivare”.
Squilla il cellulare. Andrea, facendo una smorfia, dice: “Uffa, sarà mia madre. Continua a chiedermi se mi sento bene, se ho bisogno di qualcosa, se ho sete o se ho fame. Ancora qualche frustata, poi comincerà la discesa”.
In bocca al lupo, caro Andrea. Diventerai un avvocato? Diventerai architetto. Poco importa. L’importante è che la vita sia veramente in discesa. Perché te lo meriti.