I molteplici linguaggi artistici contemporanei rivelano e svelano lo sguardo personale di ciascun autore di un’opera, il suo modo di affrontare la realtà interiore o esterna, e di liberarsi dalle sensazioni che lo avvolgono sulla base del proprio sentire, della sua necessità espressiva; all’interno di questo variegato mondo creativo alcuni artisti scelgono di narrare emozioni positive, allegre, altri invece hanno bisogno di scendere a fondo del proprio intimo e interrogarsi su tutto ciò che spesso non riesce ad affiorare in superficie. L’artista di cui vi parlerò oggi appartiene ai più introspettivi, ai più orientati a guardare, affrontare e metabolizzare quelle sensazioni forti che appartengono al mondo interiore di ciascun essere umano.
Fin dal suo esordio nella storia dell’arte del Novecento, l’Espressionismo Astratto si era delineato come movimento di opposizione al rigore dell’Astrattismo Geometrico che aveva però avuto la forza di rompere in maniera netta i confini con tutta quella produzione artistica che aveva bisogno di raffigurare, o dare la propria interpretazione, della realtà per esprimere le sensazioni e gli stati d’animo degli esecutori delle opere. Quando l’industrializzazione e la diffusione dei nuovi apparecchi di riproduzione delle immagini, le macchine fotografiche, si andarono affermando in maniera via via più netta, un nutrito gruppo di artisti nordeuropei avvertì l’esigenza di dar vita a una forma d’arte, una modalità espressiva, che fosse inaccessibile alla meccanicità e che non avesse bisogno di aderire alla realtà conosciuta per creare un’opera d’arte. Tuttavia quell’Astrattismo Geometrico così rigoroso, scientifico, risultava freddo, impersonale, privo della capacità di raggiungere le corde emotive proprio perché concentrato sulla plasticità pura e semplice, sull’esaltazione dell’atto creativo spogliato da qualsiasi impressione e sensazione dell’autore dell’opera. Vassily Kandinsky fu il primo a intuire la necessità per gli astrattisti della capacità di donare emozioni, da sempre lo scopo principale dell’arte, recuperando nel suo Astrattismo Lirico la capacità di narrare e manifestare sensazioni che dovevano danzare insieme alle figure indefinite protagoniste delle sue tele. Jackson Pollock fece propria l’intuizione del grande maestro russo enfatizzando però l’esigenza che tutto dovesse essere emozione, non trattenuta, travolgente o morbida nel fluire, ma sempre punto focale di principio e di fine di ogni opera; il movimento da lui ideato prese il nome di Espressionismo Astratto e inizialmente trovò terreno fertile negli Stati Uniti, dove ebbe origine, per poi diffondersi e trovare grandi maestri anche in Europa proprio in virtù di quella forza comunicativa in grado di travolgere l’osservatore. L’artista Rabia Kadmiri, di origine marocchina ma naturalizzata tedesca, sceglie il movimento di cui Pollock fu fondatore per raccontare i propri moti interiori, quelle ferite, quelle cicatrici, che gli eventi, il passato, le circostanze o semplicemente il mondo osservato hanno lasciato nella sua profonda sensibilità.
È come se il suo sentire avesse bisogno di lasciar fuoriuscire quelle sensazioni che diversamente resterebbero latenti, nascoste, a turbare i suoi pensieri, la sua quotidianità, perché molto più spesso di quanto si immagini è esattamente ciò che la razionalità rifiuta di affrontare, o ammettere, a creare i blocchi più resistenti, quelli che a lungo andare impediscono all’individuo di metabolizzare gli accadimenti per cominciare il percorso di rinascita.
Le tonalità scelte dalla Kadmiri sono essenzialmente fredde, come i bianchi, gli azzurri che sembrano predominare molte delle sue tele, eppure sempre accompagnate a tinte più vibranti, più vivaci, sulla base del sentimento che desidera descrivere e comunicare al fruitore dell’opera.
Il suo percorso è introspettivo, volto a domandarsi il perché degli accadimenti ma anche quanto essi abbiano lasciato un solco nella sua anima, sensibile e fragile come quella degli artisti, ma anche forte e bisognosa di trovare un gancio, una via d’uscita verso la rinascita proprio in virtù di consapevolezze e prese di coscienza delle cicatrici che qualsiasi evento, qualunque circostanza del cammino effettuato, lascia uno spunto funzionale al trovare la forza di rialzarsi, di rimettersi in piedi forse anche più forti di prima.
L’opera Tanz der Wunden (Danza delle ferite) rappresenta esattamente l’attitudine di Rabia Kadmiri a valutare e osservare l’alternanza degli istanti più piacevoli con quelli più dolorosi, quegli attimi in grado di dare gioia ma subito dopo tracciare un solco; tuttavia, sembra suggerire l’artista, la gioia ha spesso come contropartita uno scotto successivo che può lasciare disorientati, addolorati, a terra, ma che probabilmente si ritornerebbe a vivere e sperimentare pur conoscendone l’epilogo, perché l’esistenza di quella ferita non può precludere il desiderio di lasciarsi andare al bello che in ogni caso le esperienze lasciano.
In Springflut (Marea primaverile), le tonalità scelte appartengono alla gamma dei colori freddi, eppure la sensazione che fuoriesce dall’opera è di morbida avvolgenza, di serenità dello sguardo mentre si posa su quei flutti, quei gentili spruzzi d’acqua che sembrano voler attrarre in virtù della loro capacità rigenerativa, della moderata vivacità diversa dal turbinìo della mareggiata e dunque più rassicurante.
Nella tela Land der Herausforderung (La terra della sfida) la Kadmiri torna al rosso più impetuoso, lo associa al verde, al blu, al giallo ocra, e li mescola, li lascia compenetrarsi e scontrarsi per dare la sensazione dell’unione che spesso diviene conflitto, tra colori differenti, forze opposte, metafora del mondo che viviamo in cui ogni territorio, ogni confine sembra dover essere una scatola chiusa all’esterno, dove per entrare è necessario imporsi per essere ascoltati, dove la diversità è intesa come qualcosa da cui doversi difendere. È questa la sfida citata nel titolo, quell’antagonismo esistente solo in virtù di un timore di aprirsi all’altro che potrebbe invece essere semplicemente ascolto in cui le forze contrarie non devono necessariamente entrare in conflitto bensì semplicemente armonizzarsi e attingere l’una dall’altra.
Simbolo di quest’auspicio sembra essere la tela Der Wald (La foresta), in cui emerge la sensazione di calma, di pace, forse raggiunta solo e unicamente attingendo alla essenzialità e alla spontaneità della natura che insegna all’essere umano ad accogliere e assorbire come parte di sé anche elementi che non le appartengono, ad ascoltare il silenzio e attraverso quello meditare su un’interiorità che istintivamente non conoscerebbe divisioni e distanze che invece emergono attraverso l’inquinamento della generalizzazione e della mente razionale che spesso tende a separare e ad allontanare ciò che non conosce. Rabia Kadmiri espone le sue opere in molte mostre collettive internazionali in Germania, in Italia, in Egitto, e nel 2020 è stata insignita di tre importanti premi d’arte e riconoscimenti.
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