Nel periodo artistico contemporaneo si è ampliato notevolmente il raggio d’azione di quei creativi che non riuscirebbero a restare dentro i limiti dell’espressione pittorica o scultorea, perché il loro desiderio di sperimentazione e di ricerca di linguaggi inediti necessita un’autonomia comunicativa in grado non solo di andare oltre, ma anche di trovare e generare un contatto più diretto e immediato con il fruitore. L’artista di cui vi parlerò oggi è un esploratore della realtà attuale, un filosofo che riflette e manifesta il suo pensiero attraverso le sue opere.
Gli esordi del Ventesimo secolo sono stati un susseguirsi di innovazioni artistiche che non solo hanno trasformato e sovvertito ogni regola precedentemente osservata ma hanno anche aperto strade completamente inedite che hanno investito molti settori culturali. Il desiderio di ribellione alle regole figurative e creative dei secoli precedenti è stato il punto comune di inizio secolo, tuttavia ciascun movimento ha voluto sottolineare e formalizzare le proprie basi, i propri punti fermi molto spesso differenti da quelli di correnti coeve. Il Dadaismo, nato nella Svizzera neutrale del primo conflitto mondiale, fu il primo ad avere un approccio irriverente, ironico, stravagante e di disgusto nei confronti dei dettami del passato e a liberare l’arte utilizzando materiali non convenzionali, e spesso di uso comune, attraverso cui dare sfogo al loro disprezzo verso tutto ciò che era stato definito arte fino a poco prima. Da Marcel Duchamp a Man Ray, da Francis Picabia a Marcel Janco, i dadaisti introdussero nell’arte il tema del concetto, della riflessione filosofica in ambito culturale e sociale, espresso sì con intento satirico e dissacrante ma pur sempre attraverso un’analisi sottile della vita dell’epoca, dell’arte, degli eventi che si stavano verificando in tutta Europa. Tanto breve fu la durata di questa corrente, che presto sfociò nel Surrealismo, quanto importante e profondo fu il segno che lasciò nella storia dell’arte sdoganando l’utilizzo della materia, di qualunque natura essa fosse, per creare arte distaccandosi da ogni legame con la bellezza, con l’estetica, con una forma che prima era predominante. Successivamente, intorno agli anni Sessanta, il Neo Dada riprese la stessa impronta concettuale del Dadaismo ampliandola però a oggetti moderni, appartenenti all’immaginario comune e alla corsa all’acquisto che caratterizzò la società consumistica di quell’epoca, e che sarebbero stati destinati a terminare il proprio ciclo vitale; non solo, lo sguardo sarcastico e dissacrante sull’arte era il medesimo dei primi Dada eppure anche più forte e provocatorio, come nel caso della celebre Merda d’artista di Piero Manzoni che ironizza su quanto il bene di consumo possa trasformarsi facilmente in opera d’arte. È in questo contesto stilistico che si colloca la produzione creativa di Adolfo Maffezzoni, artista lombardo con forte attitudine alla riflessione filosofica, all’osservazione dell’individuo nel contesto della generalizzazione a cui l’uomo contemporaneo inevitabilmente si lega proprio in virtù di un innato bisogno di appartenenza, di sentirsi parte di un tutto, di possedere simboli senza i quali si sentirebbe una voce fuori dal coro.
I materiali utilizzati da Maffezzoni sono molteplici, sulla base del concetto che desidera esprimere e anche dello sguardo sui simboli della società attuale, dunque il suo stile potrebbe definirsi Dada Pop perché nelle sue composizioni emerge molto spesso il legame con l’elemento consumistico, come in Sacco 2013 dove il contenitore raccoglie in sé l’effimero di una corsa modaiola alla griffe enfatizzando quanto troppo spesso si metta in secondo piano l’essenza; tutto ciò che viene posseduto e che può essere comprato, è altrettanto velocemente dimenticato, termina presto il suo ciclo vitale perché l’interesse non è legato a una reale sostanza bensì semplicemente a una forma da mostrare.
Nel lavoro Apertura invece Maffezzoni racconta la tendenza ad accumulare oggetti che poi si trasformano in peso, in fardello emotivo per la tendenza dell’essere umano ad attribuire a essi significati che in realtà non hanno poiché tutto ciò che conta è nell’interiorità; troppo spesso il volersi riempire di oggetti è il sintomo di un vuoto emotivo da colmare, ripiegando su qualcosa di inanimato la consapevolezza di non essere in grado, o di non sentirsi all’altezza, di misurarsi con le proprie sensazioni, con le profondità intime che spesso fanno paura. La tendenza di questo poliedrico artista è quella di utilizzare ciò che diversamente sarebbe destinato a essere rottamato ridonandogli un senso differente, grazie alla sua necessità di sperimentare, di aprirsi a nuovi linguaggi, di mettere in connessione l’atto creativo con tematiche che spaziano dalla cinetica alla cinematica, dalla meccanica a temi più umanistici, espressi attraverso le sue opere pittoriche, legati alla filosofia e anche all’erotismo.
La serie dei Caminetti rientra nell’arte cinetica, in quel punto di vista di Maffezzoni per cui tutto può muoversi e trasformarsi, modificare la propria struttura esterna ma mantenere invariata la sua utilità, seppur effimera e immateriale, come nell’installazione Caminetto 2 in cui un telaio di circa due metri per lato sostiene una rete metallica su cui poggiano vasetti in vetro colorato contenenti candele accese. Il senso è quello della temporaneità dell’esistenza, di quell’essere qui e adesso, assaporando ogni istante poiché domani la luce potrebbe cessare di esistere, la candela potrebbe spegnersi pur avendo cercato di costruirsi una base solida, una struttura resistente quanto però inutile davanti all’effimero che avvolge per sua natura ciascun essere umano.
Nella tela Tecnologia invece si sposta sulla tematica erotica esplorando quel mondo virtuale in cui le persone scelgono di entrare preferendo l’osservazione a distanza piuttosto che il contatto umano; approfondisce con sguardo ironico un modo di vivere modificato, in cui le interrelazioni, persino quelle sessuali, vengono vissute nell’ambito di un’irrealtà, in nome di una corsa all’immagine fittizia in cui le persone hanno paura di mostrarsi nella loro essenza, quella più vera ma anche più fragile. La protezione di uno schermo, il porsi all’interno di una scatola chiusa li illude di essere invulnerabili salvo poi trovarsi di fatto sole.
Feci colorate è a sua volta una provocazione, un modo per evidenziare quanto le menti delle persone siano manipolabili, abbagliate da un aspetto piacevole e colorato al punto di non riuscire a capire la reale materia di cui si compone ciò che si osserva; la base chiara e neutra, con un solo grande punto focale nero, è funzionale a evidenziare la policromia coinvolgente e allegra dell’oggetto materico al centro dell’opera, una forma piacevole che nasconde ciò che nessuno vorrebbe se osservato nel suo aspetto originario.
Artista da sempre Adolfo Maffezzoni si afferma con le sue installazioni, ma in breve sente il desiderio di ampliare le potenzialità espressive e comincia a dar vita a quella che lui stesso definisce un’Estetica del rottame, che diviene in breve il suo tratto distintivo; espone regolarmente in molte mostre collettive e personali in Italia e all’estero.
ADOLFO MAFFEZZONI-CONTATTI
Email: adolfomaffezzoni@libero.it
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Instagram: https://www.instagram.com/adolfomaffezzoni/
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