GENOVA – Max Manfredi, cantautore, attore e scrittore, nasce a Genova nel mese di dicembre. Ha pubblicato sei dischi e ha svolto, e svolge, concerti un po’ dappertutto. Come scrittore ha dato alle stampe cinque libri.
“Amorazzi” raccoglie versi scritti in trent’anni e poco più, persi, ritrovati, raccolti fortunosamente in case di amici, vecchi scaffali, memorie del computer rimaste illese da incendi e rovine telematiche. “Amorazzi” è fatto di liriche, invettive, satire e nonsense. Protagonisti di “amorazzi” sono il linguaggio, la cura per le parole gelose, il miracolo di una versificazione che pare del tutto naturale mentre mischia stili, registri, lacrime di coccodrillo, sbaffi d’inchiostro e urla primordiali con la stessa anarchica, severissima verve.
Bentrovato Max, sta per uscire la tua raccolta di poesie dal titolo Gli amorazzi: cosa intendi per amorazzi e quali sono i tuoi amorazzi?
“Amorazzi”, razzi d’amore, amori d’occasione che durano tutta la vita. Durano nella memoria, la biblioteca dell’anima. A volte perdi delle poesie e poi le ritrovi, e dove? Proprio nella memoria! E sono composizioni solitarie o conviviali, veglie in comune o da soli.
Perché dopo aver scritto canzoni ora è nata l’esigenza di scrivere poesie? Le due cose in realtà sono fortemente connesse in un artigiano della musica come te (ricordo bene di come tu hai sempre detestato l’appellativo di cantautore)…
Al giorno d’oggi esiste ancora il cantautorato e soprattutto esiste ancora la poesia?
Ah ah! Per l’appunto: il “cantautorato” non esiste, la canzone e la poesia sì, e anche la poesia della canzone. Però bisogna andarsela a cercare! Non è facile.
Le canzoni come la poesia sono la fuga dalla realtà oppure sono un’ ancora alla stessa?
Tutt’e due provengono dalla percezione soggettiva della realtà, tutte cercano di fuggire da questo vincolo e raggiungere forme di estasi, una specie di wormhole da cui passare per recuperare un’altra realtà, quella che si vuole descrivere, scrivere. La percezione della realtà passa dai sensi ai linguaggi. a volte inciampa in note, suoni, parole.
Questo sarà la tua unica raccolta di poesie?
Non lo so, certo ho esaurito le scorte temporaneamente. Del resto non ho neppure molte canzoni nuove. Vivo di rendita, per così dire, e ho pronta una sfida teatrale di cui parleremo appena vorrai.
Quanto bisogno abbiamo di poesia?
Rispondo in modo francamente partigiano: abbiamo bisogno di bella poesia, bella vita, bell’arte, buoni vini, buoni cibi. Abbiamo bisogno di cose belle. Poi penseremo a redimere le brutte, all’estetica del brutto. Di brutte poesie è già pieno, ne hanno bisogno solo quelli che le scrivono. Lo stesso si può dire della musica, dei dischi, dei film, della televisione. Pensiamo a questo paradosso, se ci fosse una bella televisione! Invece no, la televisione dev’essere brutta. Ah, l’imposizione del brutto: una delle cifre più salienti del totalitarismo.
Siamo in chiusura, lascia un messaggio a chi ci legge…
Comprate il libro quando uscirà, venite a sentire i miei concerti, propagandate ciò che faccio, lasciate perdere i valori gregari, quello di cui parlano già tutti per non sentirsi da meno!
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