Il 2 dicembre si celebra la Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù. In quella stessa data, nel 1949, l’Assemblea Generale ha adottato la Convenzione delle Nazioni Unite per la repressione della tratta di persone e dello sfruttamento della prostituzione altrui.
Per definizione, lo schiavo è un individuo di condizione non libera, giuridicamente considerato come proprietà privata, privo di qualsiasi diritto umano e completamente soggetto alla volontà e all’arbitrio del proprietario. Non può disporre liberamente di sé e delle proprie azioni.
Il termine “schiavitù” evoca quindi un orizzonte socio-culturale che dovrebbe essere ormai definitivamente consegnato alla storia, ma le ultime stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) mostrano che non è affatto così. Il lavoro forzato e i matrimoni coatti sono aumentati significativamente negli ultimi cinque anni. E il numero di persone ridotte in schiavitù è altissimo, per un totale di 50 milioni in tutto il mondo.
Negli Stati Uniti l’abolizione della schiavitù è precedente a quella europea: durante la guerra di secessione del 1861 il processo di emancipazione vede una decisa accelerazione e il 22 settembre il presidente Lincoln proclama: “Ogni schiavo, da oggi, è per sempre libero”. Il 18 dicembre del 1865 entrò in vigore il tredicesimo emendamento della Costituzione americana che aboliva ufficialmente la schiavitù. Ma ancora oggi vi sono moltissime vittime di questo fenomeno, che non conosce frontiere geografiche, etniche, culturali o religiose.
Che si tratti di schiavitù per debiti o matrimonio forzato o qualsiasi altra forma di assoggettamento, vengono utilizzati mezzi quali la minaccia di ritorsioni verso la vittima stessa o verso i suoi familiari, coercizioni, raggiri o abusi di potere.
I regimi repressivi e le situazioni di conflitto militare sono le condizioni più favorevoli allo sviluppo di rapporti di schiavitù.
Le guerre hanno sempre svolto un ruolo chiave nell’alimentare questo fenomeno: i nemici sconfitti, quando non venivano uccisi, erano ridotti in schiavitù.
Una dinamica simile riguarda le persone che accumulano debiti non saldati: i debitori insolventi, in epoca arcaica, divenivano schiavi dei loro debitori.
Oggi la schiavitù ha assunto, in parte, nuove forme. Una di esse è la schiavitù sessuale. Di fatto è una sotto-categoria del lavoro forzato, e si concretizza nel traffico di donne che vengono distribuite nel mercato illegale della prostituzione.
Vi è poi la schiavitù infantile: il reclutamento forzato di bambini da utilizzare nei conflitti armati è una piaga ancora presente nei paesi in guerra; e a livello globale, un bambino su dieci lavora. La maggior parte del lavoro minorile che si verifica oggi è per lo sfruttamento economico. Ciò va contro la Convenzione sui diritti del fanciullo, che riconosce “il diritto del fanciullo a essere protetto dallo sfruttamento economico e dall’eseguire qualsiasi lavoro che possa essere pericoloso o interferire con l’educazione del fanciullo o essere dannoso per la salute o lo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale del bambino”.
Lo sradicamento delle forme contemporanee di schiavitù è un processo lungo e impegnativo.
Più della metà (52%) di tutto il lavoro forzato e un quarto di tutti i matrimoni forzati si trovano nei paesi a reddito medio-alto o ad alto reddito: un dato che dovrebbe far riflettere.
L’ILO ha adottato un protocollo giuridicamente vincolante, entrato in vigore nel novembre 2016, e progettato per rafforzare gli sforzi globali per eliminare il fenomeno della schiavitù.
Innumerevoli voci, in ambito politico, culturale e religioso si sono levate negli ultimi anni a denunciare queste aberrazioni.
Tra le più significative, quella di Papa Francesco: “Lavoriamo insieme per sradicare il flagello atroce della schiavitù moderna che ancora oggi incatena milioni di persone alla disumanità e all’umiliazione. Ogni essere umano è immagine di Dio ed è libero e destinato a esistere in uguaglianza e fraternità”.
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