Lavoro

Giovani Neet diminuiscono ma l’Italia rimane “maglia nera” d’Europa

ROMA – Cala ancora il numero dei Neet italiani. Ma il nostro Paese rimane la maglia nera europea per giovani tra i 20 e i 24 anni che non lavorano, non studiano e non si formano (dall’inglese, appunto, Neet). Lo rileva un’indagine del Centro studi CNA.

Un primato poco edificante

Alla fine del 2018 i Neet italiani erano 875mila, in diminuzione rispetto all’anno precedente sia in valore assoluto (-29mila unità) sia in termini relativi, dal 28,1 al 27,1 per cento. Un calo, in verità, che prosegue dal 2014, quando i Neet rappresentavano il 32 per cento della popolazione giovanile. Ma c’è poco da festeggiare. Non si può dimenticare, né tanto meno nascondere, che questo grandissimo problema rimane praticamente intatto. Enorme continua a essere, infatti, lo scarto tra Italia e resto d’Europa. Contro il 27,1 per cento del nostro Paese la media dell’Eurozona si ferma al 15,3 per cento e della Ue a 28 Stati al 14,9 per cento. All’opposto dell’Italia si situa l’Olanda (6,3 per cento) e seconda alle nostre spalle è la Grecia (20,7 per cento). Tra i pari taglia, i Neet in Spagna rappresentano il 17,7 per cento, in Francia il 17,1 per cento, nel Regno Unito il 14,2 per cento e in Germania l’8,6 per cento.

Due Italie anche per i Neet

Questi dati di sintesi sono, però, fuorvianti. Nascono da una media nazionale che accomuna due Italia compiutamente diverse. Secondo l’Eurostat, solo un neo-diplomato su due riesce a inserirsi nel mercato del lavoro entro tre anni dal conseguimento del diploma. Mentre i dati delle regioni centro-settentrionali risultano in linea con i Paesi europei più sviluppati, però, quelli delle regioni meridionali sono del tutto insoddisfacenti.

La crisi è tutt’altro che dietro le spalle

Un altro dato risulta molto allarmante. Rispetto a prima della crisi (2008) i Neet italiani sono aumentati del 5,5 per cento (151mila unità), l’incremento più alto in Europa. Per addurre qualche esempio, in Francia e in Spagna la crescita del loro numero è stata ben più lieve (rispettivamente +1,4 e +1,1 per cento) mentre nel Regno Unito (-1,9 per cento) e in Germania (-4,3 per cento) si sono addirittura ridotti.

Quant’è ostico il mercato del lavoro

Che cosa determina questa situazione? La svogliatezza, forse? Se il 50,9 per cento dei Neet davvero non studia, non si forma né cerca un’occupazione, il rimanente 49,1 per cento, che un lavoro lo cerca, difficilmente lo trova e il suo periodo di disoccupazione può essere molto lungo. Un peso maggiore, quindi, nella proliferazione di Neet in Italia lo portano le difficoltà nel mercato del lavoro. Lo dimostra un altro dato. Anche chi cerca di associare allo studio una prima occupazione incontra ostacoli quasi insormontabili: ci riesce solo il 5 per cento contro il 32 per cento della Germania, il 21,3 per cento del Regno Unito, il 19,5 per cento della Francia e il 12,7 per cento della Spagna.

Cause lontane, soluzioni (abbastanza) vicine

Da che cosa scaturisce il record negativo italiano dei Neet? Il nostro Paese è ormai caratterizzato da troppi anni da ritmi di crescita insufficienti. Ne discende la debolezza della domanda di lavoro, accentuata da una legislazione che spesso non facilita l’ingresso dei giovani, soprattutto nelle imprese micro e piccole, vale a dire oltre il 98 per cento del tessuto produttivo. Proprio le imprese artigiane micro e piccole sono invece il luogo ideale per i giovani in cerca di occupazione. Rappresentano, infatti, una sorta di palestra dov’è possibile apprendere mestieri manuali specializzati potendo avvalersi dell’esperienza e della guida diretta del datore di lavoro.

La politica, allora, deve agire. Prima di tutto potenziando l’integrazione tra i diversi strumenti di occupazione e formazione: l’alternanza scuola-lavoro, gli Istituti tecnici superiori (Its), il contratto di apprendistato, i vari incentivi per l’assunzione dei giovani e dei residenti nel Mezzogiorno. Tutti strumenti che andrebbero tagliati su misura delle esigenze del sistema produttivo italiano, in particolare per rispondere alle necessità delle imprese artigiane, piccole e medie. Proprio grazie a questi strumenti, del resto, l’impresa diffusa ha già ottenuto risultati soddisfacenti in termini di occupazione e di trasmissione del sapere e dei saperi. Mentre per molti giovani hanno rappresentato il primo passo verso l’auto-imprenditorialità. Serve un ulteriore sforzo per eliminare le difficoltà tecnico-operative che le imprese ancora incontrano, a esempio, nella fruizione degli sgravi contributivi o nell’avviamento dei percorsi di tirocinio.

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Redazione L'Opinionista

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