Solo un regista con la sua sensibilità poteva realizzare un film con 18 storie femminili e insieme delineare ciò che è il sogno cinema. Parliamo di Ferzan Özpetek e di Diamanti, il suo ultimo film, che “racconta con coerenza e ricchezza di sfaccettature il mondo al femminile, prendendo a pretesto le dinamiche relazionali e lavorative che si instaurano in una sartoria che risponde alle committenze cinematografiche” e al contempo è “una riflessione metacinematografica, espressamente presente fin dall’inizio, visto che lo stesso regista compare in un prolungato totale iniziale nell’atto di distribuire e discutere i copioni con costumiste e sarte, ulteriore elemento di interesse, che svela il backstage delle sartorie al servizio dell’industria cinematografica e lo rende il terreno ideale nel quale si appalesano non solo la sensibilità e il gusto, ma anche lo spirito di gruppo, la tenacia e la resilienza femminili”, come annota Alessio Cossu in una recensione.
Ogni personaggio è delineato con caratteri propri e, quando non lo sia, dà un contributo perfettamente intonato alla coralità. Nessuna battuta fuori posto, anzi alcuni dialoghi si chiudono con affermazioni che esulano dal tenore metacinematografico per acquisire il sapore della massima indimenticabile. Anche la gestione delle inquadrature coincide coerentemente con un punto di vista al femminile: tendenzialmente mobile, quasi a riprodurre la solerte iperattività delle donne, la macchina da presa si muove morbidamente tra di esse, tavolta vi gira attorno più e più volte, con un occhio scrutatore, indagatore. Femminile, appunto.
Quanto ai ruoli maschili, alcuni di essi appaiono polemicamente e provocatoriamente ribaltati rispetto al rigido clichè uomo/donna, rendendo meno asfittico e prevedibile il quadro delle interazioni e interrogando gli spettatori e le loro certezze. Diamanti è la miglior prova di Ferzan Özpetek degli ultimi anni. È un’opera che si rivolge al pubblico senza pretesa di didascalismo alcuno, con gentilezza e allusività, ironia profondità. Quella profondità che permette di cogliere il carattere o lo stato d’animo di un personaggio sulla base dell’abbigliamento che indossa.
Quando le donne sono al lavoro indossano, tranne Alberta e Gabriella, un abbigliamento che le eguaglia le une alle altre, mentre quando lasciano l’atelier e scendono dai mezzi pubblici, sciolta quella che potremmo definire una vera e propria sorellanza, nella singola irripetibilità dei loro abiti si dirigono ciascuna, chi con una battuta, chi con fare civettuolo, chi con espressione più meditabonda, verso la propria quotidianità familiare. Le donne che popolano la sartoria Canova possono litigare, insultarsi e prendersi in giro ma non si pugnalano alle spalle: non sorprende che alla sceneggiatura, oltre al regista, ci siano due mani femminili, Carlotta Corradi (anche autrice del soggetto) ed Elisa Casseri.
Questo senso di “sorellanza” è incarnato al sommo grado dalle due protagoniste, legate tanto dall’affetto quanto da ricordi dolorosi che affrontano in modo speculare e contrario: Alberta passandoci sopra come uno schiacciasassi, Gabriella schivandoli accuratamente. Luisa Ranieri e Jasmine Trinca interiorizzano completamente i rispettivi ruoli, acquisendo fisicamente l’una una durezza programmatica, l’altra una negazione di sé che sfiora l’annullamento (mai le occhiaie di Trinca sono risultate tanto simboliche). Insomma un film con emozioni che ti restano dentro, anche dopo la parola: Fine.
A cura di Carlo Di Stanislao
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