Per alcuni creativi l’arte figurativa non è sufficiente a raccontare l’esatta pienezza delle sensazioni e delle emozioni percepite nell’atto esecutivo di un’opera pertanto attingono ad antiche tradizioni di culture lontane per scoprire un modo più completo di esprimersi, quello di coniugare figurazione al mondo delle parole che da un lato approfondiscono il senso del visibile, e dall’altro danno all’osservatore un punto di vista diverso da quello ricevibile solo attraverso lo sguardo. Questo è il percorso espressivo compiuto dalla protagonista di oggi che sceglie di epurare le sue opere da una gamma cromatica che distoglierebbe l’attenzione dall’intensità narrativa dei suoi protagonisti mescolando questa essenzialità alle parole degli haiku, a volte più esplicite altre più ermetiche, per indurre il fruitore a compiere un maggiore sforzo empatico ed entrare nel mondo segreto dei personaggi.
La tradizione di unire l’arte figurativa con quella calligrafica proviene dal lontano Oriente, in particolare dal Giappone, dove nelle stilizzate opere yamato-e in cui la natura era protagonista assoluta perché legata alla religione shintoista erano presenti pensieri, brevi frasi che andavano ad armonizzarsi con la divinità naturale rappresentata; nell’evoluzione successiva, ukiyo-e a cui appartiene il celeberrimo Hokusai, la parte grafica ebbe un maggiore spazio e furono così introdotti i brevi e musicali haiku all’interno delle opere, che si aprirono, oltre alla rappresentazione degli elementi della natura, anche alla narrazione di spaccati di vita di personaggi in abiti sfarzosi, come le geishe o gli eroici samurai. Ciò che colpisce ancora di quel tipo di arte tradizionale giapponese è la forte connotazione grafica e stilizzata da cui sembra emergere più l’essenza della realtà, la forza spirituale di ogni cosa che si armonizza alla figura umana, che non la sua superficie. In Occidente al contrario, nello stesso periodo storico, dunque tra il Mille e il Diciassettesimo secolo, la predominanza assoluta nelle arti figurative era data alla narrazione della realtà, molto spesso religiosa con rappresentazioni legate alle leggende, ai miti classici, alle parabole della Bibbia, ai Santi e a tutto ciò che poteva essere educativo nei confronti del popolo. Ma anche i ritratti di personaggi nobili, i sovrani e più avanti gli appartenenti alla nuova nobiltà emergente grazie agli affari della Rivoluzione Industriale, ebbero un ruolo di primo piano nella pittura e nella scultura del periodo antecedente all’Ottocento, a metà del quale vi fu una prima svolta, un’attenzione da parte degli artisti nei confronti degli ultimi, delle classi meno privilegiate che però emanavano molta più umanità ed emozionalità rispetto ai ceti più alti. Questo stile fu denominato Realismo proprio perché andava a scavare nelle pieghe della realtà mettendo in risalto espressioni rubate nei momenti quotidiani ai lavoratori e alle loro famiglie. Poco dopo, e dunque interpretabile quasi come una conseguenza a quel primordiale cambiamento di interesse pittorico e scultoreo, emerse in modo chiaro un forte orientamento a far prevalere la sfera delle sensazioni su qualunque altro tipo di equilibrio estetico, perché nel mondo si stava maturando la necessità di tornare a un nuovo Umanesimo in cui la figura umana fosse al centro della ricerca culturale, artistica e persino scientifica per contrastare l’avvento della tecnologia. L’artista francese Cécile Batillat si pone come anello di congiunzione tra le due culture, quella Orientale e quella Occidentale, introducendo nelle sue opere grafiche la delicatezza espressiva della pittura giapponese, concretizzata in lei con la linearità della grafite e dell’inchiostro ma anche nella particolarità di inserire brevi haiku a esplicitare il senso di ciò che lo sguardo coglie, mescolandola però all’Iperrealismo dove i volti rappresentati esprimono le loro emozioni, quelle espressioni spontanee che svelano la loro anima più profonda.
Non solo, un’altra delle peculiarità di questa interprete del mondo artistico contemporaneo è la necessità e il desiderio di attualizzare i personaggi mitologici, le figure leggendarie che assumono così caratteristiche umane, un aspetto riconducibile a quello di tutta la marea di persone che ogni giorno ciascun individuo incontra nel proprio cammino, lasciando il sottile messaggio che il passato e le credenze che determinavano le scelte e la morale dell’uomo di molti secoli fa, non sono poi così lontani e possono trovare spazio anche nell’interpretazione moderna perché a dispetto del pragmatismo che la contraddistingue l’uomo non può fare a meno di racchiudere in sé una profonda spiritualità, quello sterminato mondo di emozioni che lo domina rendendolo unico nel suo sentire.
L’osservazione dei volti compiuta da Cécile Batillat è profonda, sembra voler entrare nella profondità dell’anima per scoprire quel mondo spesso celato nella parte più affiorante in superficie, e dunque ogni dettaglio, ogni singola espressione equivale a scoprire un mondo segreto messo in evidenza dai simboli di cui circonda i personaggi, come se questi fossero elementi essenziali per sottolineare l’approccio al momento vissuto, come se in fondo la vita fosse costantemente circondata di quella magia poetica che inevitabilmente influenza lo svolgersi degli eventi.
La natura tanto quanto la leggenda entrano così all’interno di ogni opera dell’artista che predilige la scala di grigi per dare maggiore intensità a quell’essenziale che deve diventare visibile agli occhi e percepibile attraverso l’emozione così come in virtù di quell’accenno lirico costituito dagli haiku quasi sempre presenti.
Âpre conte de fée è un lavoro esplicativo di quanto per Cécile Batillat sia importante mantenersi sulla linea sottile che divide il passato dal presente, la realtà dalla fiaba, lasciando l’osservatore a domandarsi se la narrazione appartenga al mondo immaginario oppure se è un esempio di ciò che costituiva la quotidianità dei nostri avi; il titolo sembra condurre verso la prima opzione tuttavia la connotazione realista del tratto grafico dell’artista e soprattutto la matita color seppia utilizzata per lo sfondo non può fare a meno di condurre la memoria verso le fotografie sbiadite dei nostri nonni, quelle prime testimonianze di vita quotidiana in grado di oltrepassare i confini del tempo, rendendo perciò l’insieme fortemente realistico e familiare.
L’artista esplora il mondo delle favole interrogandosi su quanto esse siano rappresentazione simbolica della realtà, o di quanto al contrario la realtà possa essere visibile attraverso la lente di ingrandimento di una fantasia che ne mette in luce e ne trasforma gli aspetti più profondi, quelli che altrimenti resterebbero nascosti dalla patina della superficie; a questo intento espressivo appartiene l’opera A St. Jean, il joue…, parte del leporello Il giocatore di respiro, dove il personaggio del pifferaio magico è fortemente evocativa della fascinazione esercitata dalla musica sui bambini, altri grandi protagonisti del libro pieghevole, ma anche simbolica della società attuale in cui il timore di un pericolo nascosto, costituito nel caso specifico dai topolini portatori della peste, può indurre le anime più pure e innocenti a lasciarsi guidare ovunque pur di trovare salvezza. Il giovane pifferaio conquista i bambini con il suo aspetto rassicurante e con la sua capacità di condurre il gioco nella direzione desiderata, come se in virtù del suo intervento ogni pericolo, ogni minaccia fosse scongiurata, senza prendere in considerazione la possibilità che invece possa essere proprio quella figura a costituire un pericolo; il testo è arricchito dagli haiku che sottolineano quel non detto che appartiene agli sguardi innocenti dei piccoli protagonisti, e mettono in luce quell’emozionalità di cui le immagini sono esplicazione e complemento.
L’opera La Foi médusée invece racconta della leggendaria figura di Medusa, mitologica Gorgone i cui capelli furono trasformati in serpenti da Atena e destinata a ridurre in pietra chiunque la guardasse; tuttavia Perseo, che riuscì a ucciderla decapitandola ne conservò la testa che non aveva perso con la morte la proprietà di pietrificare, la usò come protezione contro i suoi nemici trasformandola così un simbolo di protezione. La versione che ne dà Cécile Batillat è quella più umana e attuale, quella dell’individuo costretto a guardare in faccia i propri demoni, le proprie paure, e a oltrepassarle grazie alla determinazione e al coraggio che fuoriesce dagli occhi della giovane donna protagonista dell’opera; ecco perché nell’haiku, e nel titolo, l’autrice fa riferimento alla fede stupefatta, quella capacità di andare a fondo a se stessi per trovare tutto ciò che sembrerebbe perduto ma che in realtà non aspetta altro che fuoriuscire indipendentemente dall’avversità delle circostanze.
Cécile Batillat, laureata all’Università di Parigi I Panthéon-Sorbonne in Arti plastiche, video e nuove tecnologie, ha esposto i suoi lavori grafici della serie Il giocatore di respiro, libro pluri premiato, sia in Francia che all’estero – Italia, Argentina, Germania – raccogliendo apprezzamenti da parte del pubblico, oltre che dagli addetti ai lavori, per la sua capacità di essere delicata e abile interprete del visibile e dell’invisibile esplicato attraverso le parole dei suoi haiku.
CÉCILE BATILLAT-CONTATTI
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The slight graphic Hyperrealism by Cécile Batillat, when the soul shows itself in its essence and then dances with words
For some creatives, figurative art is not enough to recount the exact fullness of the sensations and emotions perceived in the act of executing an artwork, so they draw on ancient traditions of distant cultures to discover a more complete way of expressing themselves, that of combining figuration with the world of words, which on the one hand deepen the sense of the visible, and on the other give the observer a point of view other than that which can only be received through the gaze. This is the expressive path taken by today’s protagonist, who chooses to purge her works of a chromatic range that would distract attention from the narrative intensity of her protagonists, mixing this essentiality with the words of the haiku, sometimes more explicit, sometimes more hermetic, to induce the viewer to make a greater empathic effort and enter the secret world of the characters.
The tradition of uniting figurative art with calligraphy comes from the Far East, particularly Japan, where in the stylised yamato-e works in which nature was the absolute protagonist because it was linked to the Shinto religion, there were thoughts, short phrases that harmonised with the natural divinity represented; in the subsequent evolution, yukio-e to which the celebrated Hokusai belongs, the graphic part was given more space and the short, were introduced into the artworks the musical haiku which opened up not only to the representation of the elements of nature, but also to the narration of glimpses of the lives of characters in sumptuous dress, such as geishas or heroic samurai. What is still striking about that type of traditional Japanese art is the strong graphic and stylised connotation from which the essence of reality, the spiritual force of everything that harmonises with the human figure, seems to emerge more than its surface.
In the West, on the contrary, in the same historical period, i.e. between the year 1000 and the 17th century, the absolute predominance in the figurative arts was given to the narration of reality, very often religious with representations linked to legends, classical myths, parables from the Bible, saints and everything that could be educational for the people. But also portraits of noblemen, sovereigns and later members of the new nobility emerging from the business of the Industrial Revolution, played a prominent role in painting and sculpture in the pre-nineteenth century period, in the middle of which there was a first breakthrough, a focus by artists on the last, the less privileged classes, who, however, exuded much more humanity and emotionality than the upper classes. This style was called Realism precisely because it delved into the folds of reality by highlighting expressions stolen in everyday moments from workers and their families. Shortly afterwards, and thus interpreted almost as a consequence of that primordial change of interest in painting and sculpture, a strong tendency to let the sphere of sensations prevail over any other kind of aesthetic balance clearly emerged, because the world was maturing with the need to return to a new Humanism in which the human figure was at the centre of cultural, artistic and even scientific research to counter the advent of technology.
The French artist Cécile Batillat acts as a link between the two cultures, East and West, introducing the expressive delicacy of Japanese painting in her graphic works, realised in her with the linearity of graphite and ink but also in the peculiarity of inserting short haiku to make explicit the sense of what the eye catches, mixing it, however, with Hyperrealism where the faces represented express their emotions, those spontaneous expressions that reveal their deepest soul. Not only that, another of the peculiarities of this interpreter of the contemporary art world is the need and desire to update mythological characters, legendary figures that thus take on human characteristics, an aspect that can be traced back to that of the whole tide of people that each individual encounters every day on his path, leaving the subtle message that the past and the beliefs that determined man’s choices and morals many centuries ago are not so distant and can also find a place in modern interpretation, because in spite of the pragmatism that characterises it, man cannot help but contain within himself a profound spirituality, that boundless world of emotions that dominates him, making him unique in his feeling. Cécile Batillat‘s observation of faces is profound, she seems to want to enter the depths of the soul to discover that world often concealed in the part that is most visible on the surface, and therefore every detail, every single expression is equivalent to discovering a secret world highlighted by the symbols with which she surrounds her characters, as if these were essential elements to emphasise the approach to the moment experienced, as if in the end life were constantly surrounded by that poetic magic that inevitably influences the unfolding of events. Nature as much as legend thus enters into each artwork of the artist, who prefers greyscale to give greater intensity to that essential which must become visible to the eyes and perceptible through emotion as well as by virtue of that lyrical hint constituted by the almost always present haiku.
Âpre conte de fée is an explicative work of how important it is for Cécile Batillat to keep to the thin line that divides the past from the present, reality from fable, leaving the observer to wonder whether the narration belongs to the imaginary world or whether it is an example of what constituted the everyday life of our ancestors; the title seems to lead towards the first option, yet the realistic connotation of the artist’s graphic line and especially the sepia-coloured pencil used for the background cannot help but lead the memory back to the faded photographs of our grandparents, those early testimonies of daily life that were able to transcend the boundaries of time, thus making the whole strongly realistic and familiar. The artist explores the world of fairy tales, questioning how much they are symbolic representations of reality, or how much, on the contrary, reality can be seen through the magnifying glass of a fantasy that sheds light on and transforms its deepest aspects, those that would otherwise remain hidden by the patina of the surface; to this expressive intent belongs the artwork A St. Jean, il joue…, part of the leporello The Breath player, where the character of the pied piper is strongly evocative of the fascination exercised by music on children, the other great protagonists of the folding book, but also symbolic of today’s society in which the fear of a hidden danger, in this case the plague-carrying mice, can induce the purest and most innocent souls to let themselves be guided anywhere in order to find salvation.
The young piper captivates the children with his reassuring appearance and his ability to lead the game in the desired direction, as if by virtue of his intervention every danger, every threat was averted, without considering the possibility th+at it might instead be that very figure that constitutes a danger; the text is enriched by the haiku that emphasise the unspoken that belongs to the innocent looks of the little protagonists, and highlight that emotionality of which the images are an explication and a complement. The artwork La Foi médusée, on the other hand, tells of the legendary figure of Medusa, the mythological Gorgon whose hair was turned into snakes by Athena and destined to reduce to stone anyone who looked at her; however, Perseus, who succeeded in killing her by beheading her, kept her head, which had not lost with death its property of petrifying, and used it as protection against his enemies, thus transforming it into a symbol of protection. Cécile Batillat‘s version of it is the most human and topical, that of the individual forced to face his demons, his fears, and to overcome them thanks to the determination and courage that comes out of the eyes of the young woman protagonist of the work; this is why in the haiku, and in the title, the author refers to stupefied faith, that capacity to go deep within oneself to find all that would seem lost but which in reality is only waiting to come out regardless of the adversity of circumstances. Cécile Batillat, a graduate of the University of Paris I Panthéon-Sorbonne in Plastic Arts, Video and New Technologies, has exhibited her graphic works from the series The Breath player, a multi-award-winning book, both in France and abroad – Italy, Argentina, Germany – garnering appreciation from the public, as well as from experts, for her ability to be a delicate and skilful interpreter of the visible and invisible explained through the words of her haiku.