Lei è psicologo e psicoterapeuta oltre che ipnotista, scrittore e aforista, e ha ideato la Terapia Breve delle Esperienze di Equilibrio. Le chiedo di raccontarci “la qualità” o meglio la “direzione” delle “esperienze di equilibrio”.
“Il modello della Terapia Breve delle Esperienze di Equilibrio fa parte della grande tradizione delle Terapie Brevi, famiglia di psicoterapie che hanno la caratteristica di essere focalizzate sull’efficienza, ovvero sul sostenere i pazienti nel raggiungere i loro obiettivi nel più breve tempo possibile; di norma, una psicoterapia breve dura meno di dieci sedute. Fin dal primo colloquio viene chiesto esplicitamente al paziente dov’è che desidera arrivare; la domanda tipica con cui si inizia è: “Immagini che abbiamo già finito il nostro percorso insieme, che siamo all’ultima seduta. Che cosa le farebbe dire: ‘Meno male che sono venuto qui da lei’? Se avesse raggiunto quale obiettivo, o risolto quale problema?”. Una delle differenze rispetto alle psicoterapie “a lungo termine” è che nella Terapia Breve ci concentriamo molto di più sull’autovalutazione che il paziente fa di se stesso e della propria vita: come si percepisce, dove ritiene di essere e dove vuole arrivare. All’interno delle Terapie Brevi – ma, in generale, nel mondo della psicoterapia – ciò che poi distingue un modello terapeutico dall’altro è il modo in cui le esperienze di cambiamento vengono costruite dallo psicoterapeuta, fuori e dentro la seduta. L’aver introdotto un termine diverso e nuovo – Esperienze di Equilibrio – è dipeso dal fatto che il mio modo di selezionare e disegnare le esperienze terapeutiche ha una caratteristica specifica: si raggiunge un buon equilibrio in tempi brevi vivendo esperienze complementari, laddove per me “complementare” significa “l’opposto che funziona”. Se, ad esempio, il paziente è sempre preda dei propri dubbi, va portato verso il complementare, che non è la ricerca della sicurezza dentro di sé, ma l’azione. L’opposto – che funziona – del dubbio è l’azione. Così come, l’opposto della rabbia non è la calma, ma la forza. Una persona arrabbiata che cerca l’equilibrio attraverso la calma non risolve il suo problema, ma lo posticipa alla successiva esplosione di rabbia. Una persona sempre arrabbiata va invece accompagnata a capire, percepire, sentire che le esplosioni di rabbia la rendono debole, e che la vera forza è una forza buona; un fuoco non che distrugge, ma che genera”.
Come nasce l’idea di pubblicare il libro “Il manuale delle tecniche psicologiche” per Giunti?
“Nel panorama italiano c’è un’anomalia: si parla molto poco delle tecniche e tantissimo della parte teorica, questo perché noi psicologi e psicoterapeuti sappiamo di aver bisogno, per operare, di una teoria di riferimento, di un certo mindset. Se non c’è un orientamento teorico, non sai neanche dove mettere le mani. “Teoria” etimologicamente vuol dire proprio questo: dove mettere gli occhi, dove posare lo sguardo, per fare poi delle cose nella pratica. Di solito, però, c’è un’eccedere della teoria; così accade che, nei libri di psicologia, di solito troviamo i tre quarti del testo dedicato alla teoria ed un quarto alla pratica, e questo diventa una limitazione. Sentivamo l’esigenza di invertire la rotta: mettere la parte tecnica davanti a tutto il resto, e di specificare che cosa va detto esattamente al paziente, che cosa va fatto esattamente in una seduta, lasciando la parte teorica in secondo piano. Un’altra caratteristica dei testi di psicologia, attualmente sul mercato, è che le tecniche vengono suddivise in orientamenti, cioè separate fra le varie scuole di pensiero: il libro sulle tecniche cognitivo-comportamentali, quello sulle tecniche di psicoterapia corporea, eccetera. Questo crea una certa confusione, perché molte tecniche utilizzate dai diversi orientamenti teorici sono invece simili tra loro, o addirittura identiche, anche se chiamate con nomi differenti. Volevamo che queste similitudini e uguaglianze emergessero con chiarezza. Quello che abbiamo fatto, allora, è aver chiesto a 60 colleghi, con formazioni differenti, di descrivere le tecniche che maggiormente utilizzano – loro e le loro comunità scientifiche di riferimento – nella pratica quotidiana. Abbiamo così ottenuto una collezione delle 110 tecniche più utilizzate dagli psicologi italiani e, per ogni tecnica, abbiamo indicato i vari nomi alternativi, in modo tale da far capire al lettore quanto la psicologia e la psicoterapia siano piene di interconnessioni: non ci sono così tante separazioni come potrebbe sembrare; c’è invece interazione, contaminazione e dialogo fra parti solo apparentemente differenti”.
Aforismi, una forma particolare ed antica di saggezza, ci spiega che uso ne fa lei?
“Nella Terapia Breve il linguaggio utilizzato dallo psicoterapeuta riveste una particolare importanza. E l’aforisma, fra le varie forme linguistiche, è una delle più efficaci nell’indurre un cambiamento: in una manciata di parole riesce a produrre una straordinaria esperienza emotiva. Nel mio modo di fare psicoterapia utilizzo la distinzione in nove inclinazioni psicologiche: noi esseri umani siamo guidati da nove principali priorità – spesso implicite – che ci motivano ad agire. Declino gli aforismi secondo queste nove inclinazioni. Ciò vuol dire che, ad esempio, per un “prudente” – ovvero una persona che ha come priorità la ricerca della sicurezza e che ha la paura come emozione basilare – gli aforismi vanno costruiti, o selezionati, su quel modo specifico di vedere il mondo. Ad esempio, lo psicologo può dire a un “prudente”: “La paura è come un velo che cela una scoperta interessante”, o “La tua paura è come un ostacolo fastidioso, superato il quale ti si para dinanzi una pianura sterminata”, o ancora “A forza di cercare la sicurezza, si diventa insicuri”. Gli aforismi aiutano a cambiare la percezione della realtà circostante, e fanno venire voglia di cambiare il proprio modo di agire”.
Lei viaggiava e continua a viaggiare molto: il viaggio è una parte importante della sua vita. Ci parla di questo? Cos’è il viaggio per lei e come lo applica nella psicologia?
“Mi piace molto ciò che dicono i gesuiti sui viaggi. Alle nuove reclute in formazione viene detto: “Noi gesuiti abbiamo tante case: la casa generalizia, quella dei novizi, le scuole… e i viaggi”. Anch’io mi sento a casa quando viaggio. Entrare in contatto con culture diverse mi entusiasma, mi aiuta ad allargare lo sguardo, e mi permette di vedere in che modo ogni cultura metta l’accento su determinate inclinazioni psicologiche piuttosto che su altre. In Giappone, ad esempio, c’è la tendenza culturale a spingere le persone verso il rispetto dell’autorità, verso il senso del dovere, verso l’essere metodici, tanto che, per molti di loro, vivere la vita rischia di corrispondere allo spuntare una check list: “Studiato all’Università di Tokyo? Fatto. Sposato? Fatto. Avuto un figlio? Fatto.”. Andando in India le cose cambiano e l’accento culturale, ad esempio, è spostato molto di più sul lasciare che le cose vadano come vadano. Una caratteristica che invece accomuna l’India e il Giappone, e che mi ha colpito molto, è come i genitori educhino i figli a percepire l’egoismo e l’autoreferenzialità come una delle cose peggiori che possano capitare nella vita. La cultura influenza la nostra psicologia”.
Cosa intende per creatività?
““Ci sono due movimenti nella creatività. Il primo ha a che fare con la moltiplicazione dei punti di vista. Il cambiamento in tempi brevi si basa sulla creatività: identificare una strada alternativa in opposizione a ciò che già c’è; evidenziare rapidamente un angolo cieco che ancora non era stato visto. Questo è il primo movimento: identificare un’alternativa opposta. Ad esempio, nel mondo dell’arte, gli impressionisti iniziarono a dipingere i loro quadri all’aria aperta, anziché negli studi, come era consuetudine, e a quel tempo fu una grande novità, un colpo di genio in opposizione rispetto a ciò che era dato per scontato. Il secondo movimento della creatività ha a che fare con la selezione di quegli opposti che funzionano. Come dicevo poc’anzi, c’è differenza tra opposto e complementare: il complementare è un opposto che funziona. Un conto è la moltiplicazione delle possibilità come mero esercizio di creatività; un conto è la creatività che funziona, la creatività dotata di efficacia. Motivo per cui non tutti gli atti creativi producono qualcosa di utile, o di successo, in una determinata area. Ogni soluzione è creativa, ma non tutto ciò che è creativo è una soluzione”.
Cosa significa essere un mental coach nello sport oggi?
“Il coaching è un metodo di intervento psicologico ed ha molto a che fare con la Terapia Breve e con l’ipnosi: tieni in considerazione dove la persona vuole arrivare, quali sono le sue risorse, i suoi limiti e, in che modo, limiti e risorse possono combinarsi tra loro per riuscire a raggiungere un obiettivo nel più breve tempo possibile. Lo sportivo è già abituato per professione ad autodisciplinarsi, così è molto più facile – ed è anche molto divertente – lavorarci insieme. Con gli sportivi lavoro sempre su due aspetti: in che modo gestiscono il proprio dialogo interno, e come gestiscono le proprie emozioni prima, durante e dopo una competizione. Sostanzialmente, si vanno a cercare delle astuzie, e delle modalità alternative, per migliorare la loro capacità di autoregolazione. In questo percorso aiuta anche l’ipnosi che è, in sintesi, una metodologia immaginativa, e può essere utilizzata per molti scopi, come quello di trovare supporto in se stessi. Ad esempio, dopo una brutta caduta durante una competizione, uno sportivo che seguivo aveva timore che gli potesse accadere di nuovo. Durante la sessione di ipnosi – utilizzando una tecnica che chiamo “dialogo con l’inconscio” – emerse spontaneamente un’immagine protettiva: suo padre che stava sopra la sua testa. Si è portato con sé questa immagine durante le competizioni, e gli è stata utile per vincere le sue paure”.
Ci indica a suo giudizio quale sia l’idea più sbagliata che può avere una persona comune sulla professione dello psicologo?
“Di immaginarlo come un guru, come l’unica persona che abbia le risposte giuste. In generale, la figura del “maestro” è sbagliata: quando percepisci una persona come un maestro di vita c’è qualcosa che non sta funzionando. La persona a cui chiedi una consulenza è un ponte fra dove sei e dove vuoi arrivare. Una volta attraversato il ponte, lo si ringrazia, e si va per la propria strada. È bene avere un mentore nella propria vita, ma deve diventare inutile: l’obiettivo finale di uno psicologo, di uno psicoterapeuta, è la propria inutilità. Se si diventa un costante punto di riferimento, vuol dire che si sta creando un legame di dipendenza infruttuoso; certo, può esserci un momento di passaggio in cui il paziente sviluppa una certa dipendenza verso il proprio psicoterapeuta, ma poi questo momento deve essere superato affinché emerga nel paziente il maestro dentro di sé”.
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