E’ un autentico pugno allo stomaco Harlem, il terzo romanzo del bravo Luca Leone. Un testo, decisamente corposo, visto che po’ contare, a livello di lunghezza, di più di 400 pagine, che narra la vita di due personaggi, realmente esistiti, poco più che dei bambini negli Anni Sessanta, ad Harlem, il quartiere più malfamato di New York. A legarli è anche il loro grande amore per il Basket.
Luca, tu scrivi articoli e libri dove si parla ampiamente di Sport. E’ nato prima l’amore per la scrittura o per lo Sport?
Sicuramente per lo Sport. Mio padre è stato un istruttore di nuoto e mi ha immediatamente instradato verso questa disciplina, ma io ho sempre preferito gli sport di squadra perché mi piace stare con gli amici e giocare insieme a chi ha la tua stessa passione. Farlo ha un sapore speciale.
Oggi molto sportivi, in alcuni casi campioni e autentici vip, amano raccontare la loro vita, le loro cadute e i loro successi, in autobiografie. Credi che oggigiorno gli sportivi siano diventati i nuovi divi?
Assolutamente no. I divi sono gli influencer dei social media che catturano l’immaginario molto di più dei campioni, anche perché un campione rappresenta una passione; un influencer, molto spesso, è una persona qualunque che sta avendo successo senza apparente fatica e senza apparenti abilità.
Tu che cosa ami particolarmente dello Sport?
Il mettersi in gioco. Se pratichi sport non puoi mentire devi essere autentico altrimenti non vai da nessuna parte. C’è un limite e se vuoi vincere devi andare oltre e non sto parlando di gare olimpiche o campionati europei… No, questo accade anche se corri nel parco. Un passo in più, un metro in più sono il limite che hai superato e che ti hanno fatto raggiungere un traguardo. Se pratichi un qualsiasi sport devi accettare la sfida e mostrare il tuo vero io.
Da ragazzo a quale attività ti sei avvicinato maggiormente? E soprattutto con quale spirito lo hai fatto?
Nonostante io non sia propriamente uno spilungone, ho giocato a basket per anni. I più belli della mia giovinezza. Andavo volentieri agli allenamenti perché era bello stare con i compagni di squadra che molto spesso erano amici di scuola con cui mi frequento anche adesso. Lo spirito era sempre quello del divertimento, ma veniva naturale. Poi dopo gli allenamenti panino e coca cola e tornavo a casa felice.
Molti si lamentano del fatto che oggi i giovani non amino più giocare all’aria aperta con i coetanei, magari tirando i classici due calci al pallone. Al di là del Covid, quale credi che sia il problema?
L’apprensione. Noi eravamo più liberi. Adesso si tende a proteggere i figli, io per primo, e a ritenerli sempre troppo piccoli per uscire di casa da soli. All’età di mia figlia che fa la terza elementare, io vivevo in Svizzera, a Zurigo e andavo a scuola da solo prendendo il tram, senza nessun cellulare e senza sapere una parola di tedesco. Giocavo con i bambini svizzeri a calcio e non c’era bisogno di saper parlare… Le regole le conoscevamo tutti e quelle non cambiano mai.
Altri ancora criticano il fatto che non sia più visto come qualcosa in grado di farci sentire bene ma come un mezzo per fare tanti soldi. Si è dunque persa la poesia?
No, assolutamente. Gli ultimi Campionati Europei ci dimostrano l’esatto contrario. Il cammino della Nazionale Italiana è stata pura poesia che ha coinvolto tutti. Dipende sempre da come le cose si fanno. Se ci si mette passione, si trasmette passione, se ci si diverte, si trasmette gioia. Lo Sport sforna poesia a getto continuo e invece di criticare bisognerebbe stare a guardare un atleta che, come dicevo prima, si mette a nudo mentre compie le sua gesta mostrando a tutti come è la sua anima.
Tu hai scelto di ambientare il tuo nuovo romanzo non ai tempi nostri, ma a partire dagli Anni Sessanta. Per quale motivo?
Non l’ho scelto io. Joe e Richard sono personaggi reali di quell’epoca, anni affascinanti dove NY era veramente la Capitale del Mondo. Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Andy Warhol, Leonar Bernstein e Arthur Laurents con la loro West Side Story, Truman Capote con Colazione da Tiffany, lo Studio54, Malcom X e potrei andare avanti. Un ventennio incredibile ed irripetibile che ha cambiato la cultura del mondo. E poi c’erano loro, i ragazzi del Rucker Park che scrivevano versi con una palla da basket, ma che, proprio come i poeti maledetti, buttavano via la loro vita tra criminalità e ricchezza effimera.
Credi che se fossero stati oggi ragazzi Richard e Joe avrebbero iniziato a vivere diversamente la loro vita?
Bella domanda! Richard Kirkland fa proprio questo di mestiere, va nelle scuole medie di Harlem e aiuta i ragazzi a rimanere concentrati sullo studio e sulle attività extrascolastiche. Ha messo a frutto i suoi errori ed è rispettato per questo. I ragazzi si riconoscono in Pee Wee perché parla la loro lingua. Ha sbagliato, ha pagato e chi ammette l’errore e rimedia è sempre visto con ammirazione. I due sono stati “fregati” permettetemi il termine, dal fatto di crescere senza una guida forte che sapesse riconoscere il talento e che lo sapesse valorizzare. Crescere sulla strada non ti fa notare gli errori e non ci si rende conto se le azioni siano giuste o sbagliate, l’importante è arrivare al giorno dopo e arrivarci con le tasche piene di dollari.
Ma che cosa ti ha spinto a crearli e a narrare la loro storia?
Come spesso mi accade le cose nascono per caso. Ho visto un video su youtube che parlava di Joe e Richard e di come avessero tenuto in scacco una squadra di professionisti di Basket e mi sono incuriosito. Ho iniziato a documentarmi e ho scoperto le vite rocambolesche di queste due simpatiche canaglie.
A proposito, con quali parole li descriveresti?
Simpatiche canaglie calza a pennello perché nonostante ancora oggi si giocherebbero tutto ad una sfida di tiri liberi, magari anche barando, non si riesce a non volere bene a Richard Pee Wee Kirkland e a Joe The Destroyer Hammond dei dell’asfalto del Rucker Park.
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