Musica

Dall’Abruzzo l’hard rock istintivo e verace dei Raiden

Mothership è il secondo full length album degli abruzzesi Raiden: un hard rock che strizza l’occhio agli storici Motorhead ma non solo, una personalità da vendere, ottima capacità di incastrare testi interessanti su sonorità di grande impatto energetico.

Black Goat e These Boots are made for kick your ass sono i due brani manifesto dello spirito musicale della band, ma nel disco c’è spazio anche per esperimenti che esulano dalla loro vera natura quali Charon o Neither slaves nor masters che spezzano l’atmosfera tiratissima di un disco sì istintivo ma anche ragionato, come spiegheranno bene i tre membri dei Raiden nella nostra lunga chiacchierata.

Aprire il disco con l’omonimo strumentale e chiuderlo con una personalissima versione di Redemption Song di Bob Marley rappresenta poi un’ulteriore dimostrazione della identità di una band che sa cosa vuole e non guarda certo alle mode, ma solo alla voglia di mettere in musica i propri gusti e dire qualcosa di unico e particolare.

Mothership è un disco che trasuda potenza da ogni sua traccia e rende merito ai Raiden come espressione di un hard rock viscerale e sincero, puro come quello dei grandi maestri del genere.

La formazione comprende Francesco Acerbo (chitarre e voce), Mauro Colarossi (basso e voce) e Cristian Falone (batteria).

Questa la nostra intervista ai Raiden.

Mothership si apre con l’omonimo brano strumentale, una scelta un po’ fuori dagli schemi …

“La scelta è stata molto ponderata perché aprire un album con un pezzo senza una struttura vocale lascia forse un po’ perplessi. Per come è stato pensato e poi realizzato il brano abbiamo ritenuto opportuno metterlo all’inizio del disco per aprire la strada. Abbiamo discusso parecchio: in principio eravamo sicuri di metterlo come prima canzone, man mano che andava avanti la registrazione diventavamo sempre più titubanti, poi alla fine ci è sembrato logico per il fatto che apriva all’ascolto dell’intero lavoro”.

Dentro queste vostre nuove canzoni ci sono tante influenze: si sente una matrice hard rock ben precisa. Black Goat ad esempio ha uno stile molto Motorhead.

“Black Goat è nata sulla scia del vecchio album che era molto più tirato in stile Motorhead. Sicuramente le influenze si sentono: facciamo di tutto per non scadere nell’emulazione. È indubbio che i nostri gusti musicali sono messi dentro le canzoni. In questo caso è venuto fuori un pezzo molto energetico: il tiro può rimandare ad alcune sonorità. È stata una scelta non voluta ma ci piace, è ciò che noi siamo, ci rivediamo molto più in Black Goat che non in altre tracce dell’album che sono atipiche per noi. Suoniamo più agevolmente su queste linee”.

Neither slaves nor Masters ha un testo molto particolare e dei suoni che si discostano decisamente dal resto del disco.

“Indubbiamente si discostano dal resto, ma il testo richiedeva un immaginario molto dilatato, è un contesto tra l’intimo e lo spirituale. Il brano non si prestava a sonorità veloci. Anche utilizzando queste tipologie di ritmiche che possono sembrare diverse, le liriche rimangono fedeli a quelle delle altre canzoni: il non voler essere né schiavi né padroni si ritrova anche nel resto dell’album o anche nel nostro precedente lavoro”.

Con Old Song si torna ad atmosfere tiratissime.

“Tradotto letteralmente significa “canzone vecchia”: ha infatti una storia lunga. Tra questo disco e il precedente, Old Song ci ha costantemente accompagnato cambiando nel tempo. Anche il testo mutato, in generale come avevamo un’idea veniva sviluppata in maniera diversa. Per comodità in sala prove era chiamata “canzone vecchia”, una forma di rispetto per quel pezzo. Ha delle sonorità forti e anche un po’ diverse: è un esperimento, è stato molto ragionato e ci abbiamo lavorato parecchio. Ci sono delle ritmiche che spaziano molto. Dentro il disco può sembrare che Old Song si nasconda, ma dietro in realtà c’è tanto lavoro”.

Si passa poi a These boots are made for kick your ass …. un titolo molto esplicito e forte.

“Il voler prendere a calci nel c..o certe situazioni è stato sempre uno dei punti fermi dei nostri pezzi. Lo abbiamo detto magari in maniera diversa, se qualcuno non lo avesse capito qui lo abbiamo reso esplicito. È un calcio nel c..o a tutto ciò che riguarda l’apatia e l’accidia che regnano sia nell’ambito musicale che sociale, non siamo molto inclini alla noia e al non fare. La canzone è nata quasi da sola con un riff parecchio veloce. Come Black Goat caratterizza il nostro sound al meglio. Ci sono anche altre sfumature da cogliere: ad esempio nella parte finale c’è una citazione ad Aleister Crowley che rimanda ad un voler fare ciò che uno vuole, all’assenza di regole che va contro ciò che diciamo nel testo. È un’assenza di regole che prendiamo però come spunto sempre tenendo conto del fatto che vogliamo fare qualcosa senza rimanere nell’apatia generale. Ci piace osservare in movimento”.

Charon torna a spezzare ancora le atmosfere tirate del disco.

“Questa canzone è stata una scommessa iniziata quasi per scherzo, poi portata a termine egregiamente da parte di chi ce l’ha registrata e di chi ci ha dato un grosso aiuto a livello musicale partecipando, Simone Borghese, che ha suonato per noi le tastiere rendendo Charon uno dei momenti più interessanti della produzione fatta finora da noi. È un pezzo atipico: non avevamo mai utilizzato le tastiere. Lui è un fenomeno, abbiamo provato a fare questo esperimento ed è uscito bene. Sia nell’aspetto musicale che nel testo ci piace il risultato finale. È uno spartiacque: non sappiamo se vederlo come un punto di arrivo o di inizio, non si sa mai, non ci precludiamo nulla dal punto di vista musicale”.

Se il disco si apre in un modo particolare, si chiude altrettanto in maniera particolare con una cover di Redemption Song di Bob Marley in una versione totalmente diversa dall’originale.

“Per quanto possa essere un omaggio a due grandi della musica, è stato fatto alla nostra maniera, molto personale. L’idea di inserire una cover nell’album è stata molto discussa, ma ce la siamo sentita così ed è uscita in questo modo. È chiaro che Redemption Song è conosciuta in altra maniera, però era doveroso farla a nostro modo. Sia per Bob Marley che per Joe Strummer, che l’ha interpretata in seguito, è stato un messaggio di speranza e redenzione da dare e siamo contenti che a modo nostro lo abbiamo dato. Noi siamo stati e siamo tuttora abbastanza contrari alle cover, però abbiamo reso la canzone a modo nostro in un album di musica nostra dopo due demo e due album di musica completamente autoprodotta e senza etichetta. Questa cover ci sta tutta, fatta con l’aiuto del nostro fonico Davide, chiude idealmente il disco e lascia in sospeso qualcosa per il prossimo”.

Facendo un paragone fra il vostro primo omonimo lavoro e questo quali le differenze e le omologie?

“Bilanciando i due lavori il primo era più di impatto, regnava una non consapevolezza, un suonare ciò ci sentivamo dentro. Mothership invece è stato più ragionato a livello di suoni e di esperienza: avendo già un disco alle spalle, abbiamo cercato di capire dove volessimo arrivare. Si nota la differenza: su questo nuovo lavoro ci sono brani che viaggiano in un modo ed altri in maniera differente. L’altro era più uniforme. Vedo Mothership come una crescita ed un pensiero che si apre un po’ di più, Raiden era più istintivo e come approccio all’ascolto”.

C’è un video in lavorazione per These Boots are made for kick your ass.

“Sarà pronto presto e diventerà un sorta di promo per far circolare il disco. Il video è stato girato in tre momenti diversi: in un live vero e proprio in un festival, in una sala prove e in una casa abbandonata in montagna scelta per la sua particolare forma circolare. Finite le riprese vedremo se si aprirà qualche porta in più: l’obiettivo è andare a suonare fuori dall’Abruzzo. Abbiamo agganci per dei mini tour in Svizzera, Inghilterra e Germania , vedremo come si svilupperanno le cose”.

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Pubblicato da
Piero Vittoria
Argomenti: IntervisteRaiden

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