Attualità

La Russia mi cambia la fantasia

Il lamento del duduk, questo strumento tipico degli armeni, mi è arrivato addosso quando stavo uscendo dalla trattoria di San Pietroburgo dove ero stato invitato. Lo suonava un vecchio che era venuto apposta in questo locale per festeggiarmi. Un suono che sul primo momento mi ha fatto pensare alle pecore.

Uno zufolo che sicuramente riuscivano a costruirsi i pastori con le canne e con i rami del ciliegio. Una fila di buchi e una linguetta larga simile al becco di un’anatra. Ha cominciato quasi subito a incantarmi questo suo tentativo di regalarmi il motivo più noto che conosceva. Ed io sono entrato nella rete di questi dolci ricami che facevano vibrare e soffrire l’aria che usciva umida dallo strumento.

Tutto dentro di me è diventato una preghiera, una sofferenza che voleva arrivare a chiedere un perdono con un suono primitivo quasi balbettato, fino a quando moriva in un fiato lungo che si spegneva per sfinitezza.

Stavo raccogliendo questi suoni in modo così attento al musicante e ho lasciato che quei lamenti si fermassero dove nella memoria stavano raccolti i rumori della mia infanzia.

E presto tra i mandorli… Sono partito per Mosca col treno di mezzanotte. Mi incuriosivano i lumi dei marciapiedi deserti davanti a stazioni addormentate. Ho ripensato all’alfabeto italiano che avevo discusso all’Hermitage e ho ricordato quando vidi la prima volta che gli armeni avevano fatto al loro alfabeto.

Stavo capendo che era un’idea molto giusta e profonda. Perché l’alfabeto è la sostanza vera e solida di una nazione. Se si smarrisce l’alfabeto e diventa appena un rumore, quel popolo che lo usa non esiste più.

É anche per questo ho seguito con entusiasmo l’idea di Marin Azizian di illustrare le lettere dell’alfabeto italiano. E’ componendo, incastrando, allineando quelle lettere del nostro alfabeto che arriva alle orecchie del mondo la voce della “Divina Commedia” e la leggerezza magica del Petrarca, del Boccaccio, del Montale e Pasolini.

Finalmente una sosta dopo lunghi stridori degli ingranaggi per adagiare in un biancore lunare di ghiacci la nostra lunga fila di carrozze piene di sonni agitati.

Vedo che è sceso un passeggero con un grosso elefante di plastica sulle spalle. Scompare. La magia della Russia mi ha ripreso. Non si possono tagliare i ponti con una tenerezza speciale nel far cadere dolcemente le foglie d’autunno che ti porti ancora addosso.

Tra una ventina di giorni mi aspetta l’Italia e quindi Campagnola Emilia. So di tornare con una fantasia diversa, pronta a raccogliere il calore degli amici e il profumo dei mandorli in fiore.

La differenza è questa: in Russia anch’io sono un mandorlo…

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Pubblicato da
Pino Ezio Beccaria
Argomenti: Russia

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