Un approccio sorridente e a volte dissacrante agli eventi che nell’esistenza si susseguono, è comune a molti artisti contemporanei che esprimono la loro creatività in differenti modi e stili, dimostrando l’esigenza di trovare il lato sorridente in un vivere moderno che spesso tende a fagocitare l’individuo e ad appiattire la naturale vivacità nelle pieghe della routine. Questo caratteristico approccio solare e divertito contraddistingue l’artista di cui vi parlerò oggi.
Le profonde modificazioni che si sono verificate nel campo artistico nel corso della prima parte del Novecento, non potevano non coinvolgere anche la scultura, forse la più legata ai canoni classici dai quali sembrava impossibile distaccarsi; la rivoluzione nel concepire la realtà osservata volta a sovvertire ogni schema precedente sdoganò le arti figurative dall’aderenza a ciò che l’occhio vedeva davanti a sé introducendo l’universo della non forma, della supremazia dell’essenza e del concetto a discapito di una perfezione estetica che sembrava ormai divenuta anacronistica. Lo studio sul Primitivismo effettuato da molti grandi artisti dell’epoca, tra cui il celeberrimo Pablo Picasso, condussero la scultura verso una direzione differente, meno realista, più ideale e volta a sottolineare la sostanza più che la forma, a studiare l’immagine da un punto di vista inedito, scomposto, stilizzato, piuttosto che attenersi ai canoni preesistenti della bellezza classica. Man mano che la pittura scoprì e si lasciò affascinare dalla non figurazione trasformando l’Astrattismo in una delle voci predominanti della prima metà del Ventesimo secolo, la scultura si mosse sulla medesima linea concettuale attraverso la produzione artistica di tre tra i maggiori rappresentanti del secolo: Constantin Bràncusi, Henry Moore e Alberto Giacometti. Diversi sia per l’intenzione espressiva che per lo stile unico e inimitabile di ciascuno di loro, questi tre giganti della scultura moderna hanno lasciato un segno ma anche un messaggio, una testimonianza di un’epoca particolare, frenetica nel progresso così come nella perdita dei valori e delle certezze provocate dai conflitti mondiali, dal disorientamento dell’individuo, dall’evolversi della tecnologia spesso alienante per l’individuo. Laddove Bràncusi con le sue forme minimaliste e stilizzate intendeva superare l’apparenza per entrare nel mondo dell’essenza, di ciò che resta quando la realtà si toglie l’abito formale e si priva del superfluo apparendo ripulita e levigata come le superfici delle sue opere, Henry Moore invece pose l’accento sulla necessità di raccontare, di testimoniare l’importanza dei legami emotivi, delle fasi intime e intense della vita, come la maternità, i rapporti familiari, di una grandezza interiore, che si ripercuoteva anche nelle dimensioni delle sculture, volta a sottolineare quanto l’uomo sia costantemente e necessariamente connesso con il suo mondo emotivo; e infine Alberto Giacometti che con le sue figure sottili ed esili volle esprimere e raccontare il disagio dell’essere umano, la fragilità di una condizione esistenziale in cui l’individuo non è protagonista bensì vittima di eventi più grandi, di accadimenti che è costretto a subire e, in presenza di essi, capire come sopravvivergli.
L’artista di origini polacche ma naturalizzata tedesca Aleksandra Schmidt affronta la scultura in maniera differente, più scanzonata, più aperta a quella sottile ironia fondamentale a prendere la vita con leggerezza, con quella capacità di sorridere dei piccoli difetti e dei piccoli drammi che caratterizzano l’esistenza e da cui si può uscire, trovando la giusta chiave di lettura.
Artista per natura la Schmidt ha cominciato a esprimere la sua creatività attraverso il disegno e la pittura, poi ha sperimentato altre tecniche sia pittoriche che scultoree fino a giungere allo stile attuale in cui si svela la sua attitudine all’ironia così come alla necessità di misurarsi con un materiale duttile, come forse l’individuo dovrebbe essere nei confronti degli eventi della vita, ma in una seconda fase decisamente resistente e coriaceo, cioè il cemento.
Gioca con i concetti e le debolezze dell’uomo contemporaneo Aleksandra Schmidt, con quell’alternanza tra vuoto e pieno, tra consistenza e attenzione all’effimero che fa parte ormai della società attuale, spesso a scapito di un contatto profondo con se stesso nella convinzione che la parte vuota sia quella più importante da mantenere davanti al mondo per uniformarsi a un sistema.
Nell’opera 6×6 deride l’orientamento di molti ad affidarsi al destino, al fato, a quella roulette russa di casualità senza intervenire direttamente, come se l’effettivo protagonista, l’uomo, fosse solo una semplice pedina in balìa degli eventi, di quel tiro di dadi che determina tutto ciò che accade; il senso della fatalità è enfatizzato dal dado in equilibrio instabile tra la base della scultura e il suo centro, a sottolineare quanto senza l’azione diretta e la volontà del singolo tutto possa essere affidato al puro caso.
Nella scultura Maskenkult 3 (Culto della maschera 3) l’artista approfondisce la tematica del doversi nascondere, del dover celare la propria essenza per essere ciò che la società e l’ambiente che ci circondano chiedono, e così il desiderio di compiacere un sistema da cui sembra impossibile uscire diventa prioritario davanti al bisogno di manifestare la propria vera natura, così tanto da dimenticarla oltre quella maschera divenuta ormai più grande dell’individuo stesso.
In Tänzer (Ballerini) i due protagonisti si sostengono a vicenda, quasi a voler percorrere insieme quel cammino accidentato che è la vita, quasi a necessitare una guida, una spalla sicura per ballare sul mondo, su un’esistenza che in solitudine fa paura; la danza diviene dunque simbolo del vivere, metafora dell’instabilità di un’esistenza che disorienta e induce i protagonisti a piegarsi indietro, come se fossero colpiti dal vento delle circostanze ma resistendo a esse.
In altri lavori invece, come nella scultura Blau und Grau (Blu e grigio), Aleksandra Schmidt lascia emergere il suo amore per la non forma, quel volersi avvicinare al gesto plastico puro a se stesso, rappresentando due entità al cui centro pone dei buchi, fori che possono simboleggiare sia il vuoto emotivo che la capacità di plasmarsi e adeguarsi alla realtà esterna; anche in quest’opera è evidente lo sguardo ironico attraverso cui l’artista osserva e rappresenta sensazioni ricevute dall’esterno, esattamente per quel dubbio interpretativo che fa nascere nell’osservatore che si pone davanti alla scultura.Il materiale utilizzato, il cemento, non viene mai colorato a opera finita bensì pigmentato prima di essere plasmato e questo è uno degli stimoli più interessanti per l’artista che ama sperimentare, improvvisare, connettersi con la materia per dare vita a opere stabili che possono essere esposte anche all’esterno senza rischiare di rovinarsi. Nel corso della sua carriera Aleksandra Schmidt ha partecipato e organizzato molte mostre collettive e personali all’aperto ed è membro dell’Associazione Artisti di Olching.
ALEKSANDRA SCHMIDT-CONTATTI
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