Nell’osservare la realtà oggettiva, e le persone che all’interno di quella realtà si muovono, alcuni artisti hanno un approccio critico e si inoltrano alla scoperta di turbamenti e inquietudini del vivere quotidiano, altri invece filtrano ogni dettaglio ed episodio percepito attraverso il proprio sentire. E poi ci sono quelli che mostrano una capacità empatica e aperta all’interpretazione di gesti ed espressioni tale da lasciar filtrare dalla tela tutta l’emozione percepita e che, pur appartenendo ad altri, non può non andare a coinvolgere l’osservatore. L’artista di cui vi parlerò oggi appartiene a questo terzo gruppo di artisti.
Il Realismo è stato uno dei più importanti movimenti pittorici del Diciannovesimo secolo perché per primo volle distaccarsi dai salotti nobili e dalle immagini allegoriche o simboliste della pittura del Settecento per raccontare scorci di vita comune, di città, di lavoratori intenti a svolgere le mansioni quotidiane, tanto da assumere, in concomitanza con i venti di democrazia che si stavano affermando in tutta Europa, anche connotazioni sociali e politiche. Gustave Courbet, riconosciuto come il fondatore di questa corrente pittorica, affermava con forza l’importanza di essere il più fedele possibile alla realtà osservata, agli usi e ai costumi delle persone da lui ritratte così come dai luoghi immortalati seppur filtrati dal suo personale punto di osservazione. Nel corso del Ventesimo secolo vi fu una forte corrente figurativa, il Neorealismo, che si poneva l’obiettivo di contrastare le avanguardie del Novecento, tutte orientate a distaccarsi dalla riproduzione della realtà osservata, riprendendo le tematiche realiste ma tendendo a volte, in base al paese di provenienza degli artisti, verso un orientamento sociale legato alle classi popolari più disagiate e alle loro lotte per affermare i propri diritti, come in Italia con Renato Guttuso e in Messico con il muralismo di Diego Rivera. Negli Stati Uniti invece, il movimento originario del Realismo mantenne le caratteristiche teorizzate da Courbet e si orientò verso una riproduzione affascinante e affascinata della vita quotidiana in una società, quella americana del dopoguerra, che stava vivendo un periodo di crescente benessere ma anche di profonde differenze sociali tra la classe borghese e quella più umile costituita prevalentemente da immigrati. Tra i tanti realisti statunitensi George Bellows ed Everett Shinn furono i due che si sentivano attratti dagli eventi culturali e sportivi, quelli per cui riprodurre la congiunzione tra varie forme di espressione era il fulcro della loro produzione, così come per Edward Hopper lo fu narrare le atmosfere sospese, quasi immobili, della lenta quotidianità dell’epoca e della solitudine dell’uomo.
La portoghese Cristina Cabrita, architetto per professione e artista per indole, ripropone due delle tematiche principali del Realismo Americano; a Edward Hopper si avvicina nella narrazione della solitudine, nel suo caso vissuta però come fondamentale momento di introspezione e di riflessione su se stesse delle protagoniste, sempre donne, delle sue opere, e anche per le atmosfere sospese, oniriche, in cui le colloca, come se fossero avvolte da un silenzio necessario ad ascoltare la voce della profondità interiore.
Da Everett Shinn riprende invece quell’unione tra diversi tipi di arte, nel caso specifico la danza, per svelare quanto l’animo umano necessiti, attraverso il movimento del corpo e la musica, di entrare in contatto con se stesso e con l’espressione silenziosa dei moti interiori che spesso non riesce a esprimere attraverso le parole. La natura femminile è protagonista delle tele di Cristina Cabrita, proprio perché la donna ha quella particolare sensibilità in grado di guidarla e condurla a osservare la realtà attraverso la morbidezza delle sfumature, ed è forse in virtù di quella stessa sensibilità che si piega per poi trovare la forza di rinascere, di riaprirsi e di uscire dal buio della caduta.
L’utilizzo di luci e ombre è necessario e funzionale alla Cabrita per infondere nell’osservatore un senso di introspezione, la sensazione del lento percorso che le protagoniste compiono per giungere alla connessione con se stesse indispensabile per prendere consapevolezza degli eventi e per attingere a ciò che è stato e trasformarlo nella base di ciò che sarà. È fotografico il suo approccio pittorico, come se le ballerine o le persone narrate fossero state immortalate con un fermo immagine nel momento più saliente, il più emblematico del percorso di scoperta e conoscenza di quel sé che fino al momento precedente sembrava sfuggire e perdersi nell’inconsapevolezza.
In Phoenix la donna nuda, in cui la nudità è metafora dell’esigenza di spogliarsi di tutti i veli dietro cui nasconde il vero volto al mondo, sembra essere avvolta su se stessa, come a creare un bozzolo a protezione di una fragilità che è stata ferita, di una cicatrice che deve essere compresa, vissuta, affrontata, prima di potersi riaprire all’esterno.
Nella tela Faith la protagonista appare nel momento di consapevolezza, quel tentativo di fuggire dalle catene emotive che la imprigionano, quell’esigenza di trovare un altro luogo dove poter rinascere; sembra quasi combattere una battaglia interiore, quella tra il legame con il passato e la spinta interiore che la conduce a voler prendere le distanze dagli eventi appena conclusi, ecco perché la Cabrita narra la donna come se stesse guardando indietro verso ciò che la trattiene mentre il suo corpo e tutta la sua energia la induce a protrarsi in avanti verso un domani in cui può trovare rigenerazione, un nuovo inizio, un inedito percorso.
E ancora in Silence e The cellist, il momento di riflessione, di meditazione, non può fare a meno di accordarsi ed essere accompagnato dalla musica, dal movimento armonico del corpo quando danza o quando fa vibrare le corde di uno strumento musicale come se la fase di approfondimento necessitasse quella concentrazione emotiva, quell’armonia esterna per indurre le protagoniste a cercare quella più profonda, quella interna. L’esigenza che emerge da tutte le opere di Cristina Cabrita è quella di trovare un punto di incontro tra l’accettazione di una circostanza, di un accadimento, di un percorso fino a quel momento effettuato, e la necessità di giungere alla piena consapevolezza di una responsabilità che a volte deve essere assunta mentre altre deve essere allontanata perché non sempre il corso degli eventi può essere contrastato o evitato, spesso è un passaggio necessario proprio per intraprendere un solido e fondamentale percorso di risveglio nei confronti di un’esistenza in perpetua evoluzione. Cristina Cabrita è sempre, per sua scelta, rimasta lontana dal circuito delle mostre collettive.
CRISTINA CABRITA-CONTATTI
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