L’assoluto è scarso di complimenti

412

alba uccelli spiaggia

“Quanto conta il momento presente
per chi non ha nient’altro –
l’ateo, il polemico, il vanesio –
scommettono intere sostanze
sul margine breve di un momento
mentre i loro passi deviati
sono continuamente inondati
da torrenti di eterno”
Emily Dickinson

Il mondo non è un tavolo da biliardo, e noi non siamo palline che lì sopra fluttuano in preda ai rovesci della fortuna o del caso. Il mondo è un grande avvenimento. Se Dio mi ha dato una voce e occorre che la usi per dire qualcosa, ebbene questo sarà ciò che continuerò a dire, in prosa e in versi, fino a che morte non mi separi dallo scopo. Anche dopo, magari. La nostra vita è un misterioso viaggio, che non possediamo e non conosciamo prima di averlo compiuto.

La poetessa più condivisa e inflazionata del panorama letterario mondiale, Emily Dickinson (ma, abbiamo motivo di credere, raramente guardata alla sua giusta altezza, poiché per farlo forse occorrerebbe prima vivere a quella altezza) è come un faro portentoso che sfida le tempeste dei secoli. Quando son stanca delle chiacchere, apro un suo libro. Indica la strada a chi sa ascoltarla, con versi così sorprendentemente essenziali e netti da porci di fronte alla domanda se la poesia e l’arte non coincidano, in fondo, con altro se non la perfetta vita che si vuole distillare e far parlare; e guai a qualcosa in più. La prima volta in cui scrissi, timidamente e in punta di piedi come ora, a proposito della sua poesia, ero stata invitata a farlo da qualcuno che mi aveva risposto, quando gli confessai di far fatica ad amarla, che forse occorreva che guardassi meglio, e più a fondo, proprio perché non capivo. “Ho visto l’angelo nel marmo, e ho scolpito fino a liberarlo”, scrive Michelangelo Buonarroti in un suo meraviglioso componimento.

I più grandi fanno così, estraggono la materia dal mistero del mondo cui sono continuamente tesi, e la assumono su di loro come compito assoluto, che non concede requie né risparmio, perché esca dalle loro mani che sanno tradurla, e rimanga perfetta ed eterna, per sempre. E infatti nessuna velleità o vanità estetica concede questo mostro sacro quando lo si legge, colpisce con la scabrosità del solo necessario, della parola che emerge, dopo l’attesa e la gestazione, come il diamante dalla montagna millenaria, come nella poesia che si legge all’inizio di questo articolo; non lascia scampo. L’assoluto è scarso di complimenti. E’ lei, unicamente, con le sue poesie che tagliano le gambe e urlano, a ricordarci quel che abbiamo dimenticato e che dovrà risorgere, come è destino sempre della verità. E cioè che non esiste garanzia, né assicurazione, né scelta che eluda il primato del mistero, per chi abita la terra. E che per quanto ci abbiano voluto illudere di poter vivere senza metafisica e senza Dio, senza alcun senso del sacro, credendoci padroni della nostra vita a tal punto da poterla scegliere con tanto di accessori come fosse l’ultimo modello di automobile comprato a rate, nel momento in cui giunge la variabile che in tutti i calcoli aritmetici dei “super-assicuratori” non era stata prevista, questa fantasiosa e triste recita si sfalda.

E torna a scorrerci davanti un “torrente di eterno”, il tempo, semplicemente, in tutte le sue ignote possibilità, e i suoi segreti che ogni giorno si rinnovano, che per un po’ ci si era illusi di poter ignorare, di poter governare. Negli ultimi cinquant’anni, verosimilmente, e con maggiore insistenza negli ultimi venti, da ogni campo del sapere sono proliferate ideologie e teorie che hanno cercato di convincerci di quanto tutto sia pronosticabile, e chiaro. Tutto diagnosticato. La vita ridotta a una scacchiera in cui occorre solo porre l’alfiere e fare mosse, sapendo già, dunque a rischio calcolato, (formula quantomai cara ai fedeli di questo stolto nichilismo) quale sarà il risultato da attendersi, così da essere “certi di non sbagliare”. E dunque in questo miope gioco riporre tutte le speranze e le promesse di felicità possibile, se altro non esiste e nulla avviene nella nostra esistenza se non il finito e il previsto, il solito e già scelto in precedenza. Ebbene ci accorgiamo, come sta avvenendo infatti, che se si vive come topi dentro ad una scatola, di fronte alla scoperta che si muore, o alla violenza ingiustificabile, quella non prevedibile da alcun algoritmo, della catastrofe o della malattia, che allora crolliamo subito, in preda alla nevrosi e ad un’ansia soffocante, solo perché la vita rientra in scena col suo moto naturale, che è incontenibile, e imprevedibile.

Come mai, del resto, se abbiamo tutti gli strumenti tecnici e tecnologici possibili di cui disporre, con cui calcolare tutto, viviamo nell’era in cui la maggioranza ricorre al supporto dello psicologo o quasi tutti soffrono di disturbi dell’umore, come mai, se tutto viene “venduto” come astrattamente raggiungibile? Se possiamo scegliere come vivere, senza alcun obbligo verso alcuno, come vestirci, come laurearci, se e quali figli avere, se sposarci e con chi facendo click, ecco se esiste tutto questo mare infinito di scelta, nel nostro tempo, e un rischio annesso già per intero calcolato, perché la libertà e la personalità del singolo stentano così tanto a manifestarsi e ad esercitarsi? Perché ci omologhiamo con facilità, perché rischiamo, in fondo, così poco? Perché abbiamo così tanta paura?? Perché viviamo la vita degli altri? Forse perché questa urgenza di controllo finisce per annientarci, non appena su di noi agisce la scure ineffabile del destino e dell’ignoto, cui poi torniamo, gemendo e rimproverandoci di aver abboccato con tale ingenuità, tale sciocca buona fede, a chi prometteva un avvenire già interamente arredato e a misura di desideri, che però sarebbero bastati solo a un momentaneo e vago senso di sazietà.

E ritorna lei:

“Il pericolo come un possesso
è bene portarselo
il rischio disintegra la sazietà
lì c’è un fondamento –
e incute uno sgomento
che fruga nelle pieghe della natura umana
puro come fuoco”

Emily Dickinson ci dice: non è cosa per noi la sazietà. Si sa da un pezzo che nulla basta alla vita. Ed è per questo che non possiamo chiedere meno, a un amore, a un’amicizia, a uno scopo, se non l’ampiezza incommensurabile dell’infinito. Accettare che siamo in viaggio su di un sentiero sconosciuto, di cui sono “le pareti affettuose appena visibili”, come ho scritto in una mia poesia, che indegnamente richiamo qui. Occorre fare un passo indietro, e rimettersi sul terreno dell’ascolto, e della verità della parola che si cerca, e si implora, perché emerga nel tempo e col tempo.

Tornare alla ricerca di un vero scopo, porsi di fronte all’esistenza con la domanda più urgente del “perché sono qui?”, irriducibile, che l’uomo si pone da millenni, e alla ricerca del fuoco, la vera combustione che avviene quando si incontrano cenni di assenso sulla strada. Siamo fatti per questo sperduto sposalizio col mistero, questa strenua ricerca del senso, a cui non possiamo e a cui non è pensabile rinunciare mai e poi mai, che non si placa con nessuna ricompensa di giornata, e che la poesia più alta e potente (e in particolare quella di quest’immensa artista) ci grida da ogni verso, da ogni punto e a capo.

A cura di Flaminia Colella