Il mondo della scultura affascina da sempre gli appassionati per la sua capacità plastica di irrompere nello spazio e definire momenti salienti, emblematici delle figure rappresentate, o di narrare l’indefinitezza appropriandosi fisicamente della terza dimensione, quella che induce l’osservatore a sentirsi coinvolto, vicino in maniera quasi tattile all’opera d’arte. L’artista di cui vi parlerò oggi mostra però l’inconsueta capacità di infondere nei suoi lavori quel senso di movimento e di leggerezza che tende spesso a mancare nella scultura più tradizionale.
Nei primi anni del Ventesimo secolo tutto il mondo dell’arte e della cultura subì una profonda trasformazione in virtù della quale furono scoperti nuovi linguaggi espressivi, nuove modalità per rappresentare una realtà modificata e cambiata sulla base degli eventi, ma anche del progredire della tecnologia e dell’industrializzazione, che indussero molti creativi a interrogarsi sul senso della vita, sulla fragilità dell’uomo e sulla necessità di distaccarsi dalle regole pregresse per dar vita a nuovi canali comunicativi fondamentali ad adeguarsi ai tempi. La scultura non poteva essere immune da questa rivoluzione artistica, poiché i suoi massimi rappresentanti erano coinvolti e aderivano ai vari movimenti che si susseguirono in quei primi anni del Novecento dinamici e in continua evoluzione. La staticità e la riproduzione fedele della realtà osservata che aveva contraddistinto i grandi maestri del passato, così come i materiali più classici e pregiati ma difficili da forgiare e adattare alle nuove esigenze espressive, lasciarono il posto a forme più essenziali, stilizzate, esili tanto quanto incerta e fragile era la condizione umana, oppure decisamente astratte per sottolineare la supremazia della sostanza sulla forma, del concetto sulla figurazione che non era più essenziale per la nuova filosofia artistica. Constantin Brâncuşi, inizialmente affascinato dal Primitivismo che fu base di partenza per la scultura di molti artisti dei primi del Novecento, si spostò lentamente verso una maggiore stilizzazione e astrazione dove la materia doveva necessariamente accordarsi alla tendenza verso la dissoluzione della figura; Alberto Giacometti enfatizzò invece la fragilità della condizione dell’uomo attraverso sculture sottili, esili, quasi inconsistenti nello spazio tanto quanto forte era il senso di annullamento e di destabilizzazione, l’angoscia che avvolgeva l’esistenza dell’uomo nei primi decenni del Ventesimo secolo. E infine Henry Moore le cui figure distese e deformate nell’aspetto apparivano in lento movimento, simbolo di una consapevolezza della necessità dell’evoluzione per non stagnare in una condizione inadatta a una vita più armoniosa e positiva.
Il francese Christian Candelier sembra riassumere nel suo stile scultoreo alcune caratteristiche dei tre maestri del Novecento, perché le sue opere sono leggere e delicate, senza però infondere nell’osservatore il senso di angoscia tipico di Giacometti, stilizzate pur mantenendo la netta figurazione e dunque in questo discostandosi dall’approccio più astratto del secondo Brâncuşi, e in perpetuo movimento ma decisamente più dinamico rispetto a quello lento e graduale delle grandi sculture di Moore.
Dedica quasi tutta la sua produzione alla figura femminile Candelier, come se per lui solo nel femmineo si possa trovare la via d’uscita all’immobilità, grazie alla capacità di sentire empaticamente le energie circostanti e lasciarsene trasportare, oppure contrastarle con il coraggio e la temerarietà che solo la donna riesce a trovare divenendo pioniera di nuovi modi di sentire e di affrontare un mondo in costante divenire.
Associare le sculture di Candelier al mondo della danza sarebbe semplice ma anche forse riduttivo perché di fatto il movimento che ne emerge è quello emotivo, legato a sensazioni profonde, a volte gioiose, altre rilassate, e poi ancora energiche ma anche in qualche caso fortemente introspettive, come se la protagonista ritratta sentisse l’esigenza di fermarsi per ripiegarsi su ste stessa, a protezione di un’interiorità fragile o per comprendere ciò che nella distrazione del rumore esterno non riuscirebbe a essere percepito.
Il gusto estetico dell’artista si connette alla sensibilità con cui riesce a interpretare i moti più profondi dalle sue modelle, ma anche all’esigenza di rendere essenziale la figurazione per imprimere quel senso di leggerezza, di grazia e di armonia che emerge da ciascuna delle sue sculture che Candelier non può fare a meno di intitolare con il nome delle donne che si sono prestate a posare per lui, attribuendo a ognuna di loro una sensazione, un gesto, un modo di rivelare se stessa che la contraddistingue legandola indissolubilmente a ciò che la rende unica, diversa da ogni altra. Il risultato dell’osservazione e dell’ammirazione dell’artista nei confronti di quei corpi affascinanti ed esili è una mescolanza di sensualità ed eleganza, di inconsapevole seduzione e di apparente innocenza, in grado di far emergere le contraddizioni ma anche la malìa di un universo, quello femminile, da cui ogni uomo è da sempre affascinato per il mistero imprendile che racchiude e anche per le differenze che glielo rendono spesso incomprensibile eppure incredibilmente attrattivo. Ma l’analisi di Christian Candelier vira talvolta verso l’esistenzialismo più puro, verso quelle difficoltà che appartengono indissolubilmente all’uomo contemporaneo e da cui sembra quasi impossibile liberarsi a meno che non si scelga di effettuare un percorso di introspezione, di liberazione dalle catene imposte dai propri limiti.
Nella scultura Ouimainon (Sì però no) l’artista porta alla luce la conflittualità che spesso sopraggiunge davanti a un sentimento forte e travolgente, quel voler restare attaccati alla propria abitudine di solitudine e il lasciarsi trascinare da un’emozione che invece spinge fortemente alla condivisione, immobilizzando l’essere umano che da un lato vorrebbe accogliere quel sentimeno e costruire, ma dall’altro vorrebbe continuare a evitare di impegnarsi per il timore di perdersi dentro l’amore, o di perdere quel se stesso a cui ormai è abituato.
O ancora nella scultura Homo destructor (Uomo distruttore) affronta il delicato tema sociale del silenzio, in particolar modo quello dei leader mondiali, davanti ai pericoli che minacciano il pianeta, troppo spesso generati dall’uomo stesso, e che necessitano di essere affrontati e risolti prima che sia tardi; i volti dei soggetti sono raffigurati nel momento del grido per focalizzare l’attenzione sull’immobilità e la passività con le quali l’uomo moderno, troppo preoccupato del proprio singolo individualismo, affronta ciò che in realtà dovrebbe essere cambiato con il supporto di tutti. Bronzo e terracotta patinata sono i materiali che Christian Candelier predilige per dar vita alle sue opere che coinvolgono il fruitore non solo dal punto di vista visivo per il fine gusto estetico di cui sono impregnate, bensì anche da quello tattile perché le superfici lisce e perfettamente lucide invitano al contatto, a un incontro tra materia e fisicità dell’osservatore stabilendo un legame più profondo, più vicino all’opera e all’intento creativo dell’artista. Christian Candelier ha all’attivo moltissime mostre personali e collettive in Francia e in Belgio dove ha riscosso grande successo tra il pubblico, i collezionisti e gli addetti ai lavori.
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