Il nudo nella storia dell’arte è sempre stato ricerca estetica della perfezione, se non del soggetto in sé, certamente nell’esigenza dell’artista di raccontarne con precisione l’immagine più reale, più vicina a quanto aveva davanti agli occhi. Nel caso di Guido Adaglio invece, il nudo diventa approdo finale di una ricerca, mezzo per esprimere un concetto che va ben più a fondo.
Torinese di nascita, l’artista protagonista di oggi sceglie ben presto di spostarsi dalla città per preferire una vita più tranquilla, più a contatto della natura, in Val di Susa dove riesce a fare un lungo percorso introspettivo non solo verso se stesso ma anche verso le incognite e i misteri dell’essere umano. Nelle sue opere appare chiaro il desiderio di raccontare non unicamente l’immagine bensì il sentire dei soggetti raffigurati, non solo l’apparire bensì le sensazioni che, proprio in virtù di una nudità usata più come metafora che come ricerca classica del bello, fuoriescono dalla tela in maniera forte, impattante, irresistibile spunto di riflessione e di interrogazione su quelle emozioni che l’osservatore si trova lì, davanti ai suoi occhi.
Nell’opera Don’t turn around questo concetto è molto evidente poiché il corpo nudo è ritratto di spalle, come se volesse proteggersi dagli sguardi, non tanto da quelli che si soffermerebbero sull’esterno, quanto da quelli che potrebbero andare fino in fondo alla sua anima, scoprendo uno stato interiore e privato che non va rivelato, non va svelato, perché deve restare all’interno delle pieghe di un’anima forte ma al tempo stesso fragile; o forse potrebbe essere la protagonista stessa a temere di volgere lo sguardo verso ciò che si è lasciata alle spalle, come se osservare il passato potrebbe mettere in discussione la scelta compiuta. Il colore dello sfondo è steso in un secondo momento, in una fase successiva a quella in cui il corpo è stato ritratto, come se quelle tonalità morbide volessero amplificare il gesto della donna di volersi nascondere, come se quegli strati di colore dati in modo indefinito fossero funzionali a rispettarne il desiderio di riservatezza.
Nell’opera Moonlight invece l’artista svela la sua predilezione per il nero, colore misterioso che avvolge i segreti, confonde le immagini, ne delimita la nitidezza e conduce tutto in una dimensione più intensa ma anche più intima; non c’è il palesarsi dell’immagine e tuttavia la si intravede grazie al bianco della luce, che ne definisce i contorni proprio per svelare con discrezione, come solo la notte sa fare.
E ancora in The crow, il corvo, l’artista sottolinea la fusione tra l’uomo e la natura, quell’unione grazie alla quale l’uccello non si spaventa del suo volo tanto a ridosso di un corpo perché si confonde con la montagna ma al tempo stesso, in quanto simbolo di metamorfosi e trasformazione, di passaggio da uno stato a un altro, sembra esortare un’evoluzione successiva di consapevolezza e di conoscenza, una transizione che necessariamente deve essere compiuta in raccoglimento. Non a caso infatti nel dipinto Adaglio pone una frase che riporta al mito greco secondo il quale il corvo, inizialmente caratterizzato da piumaggio bianco, fu punito da Apollo a causa della sua eccessiva loquacità; sembra quasi un’esortazione, quella dell’artista, a vivere con maggiore discrezione, in una dimensione di contatto con se stessi, escludendo quell’esterno che troppo spesso giudica, commenta, tradisce una discrezione che invece è alla base del rispetto e del riguardo verso l’altro.
In The day and the nigth and the night, il corpo raccolto sembra segnare quel passaggio tra la vita e ciò che c’è dopo, tra la luce di un’esistenza che è passata via in un soffio lasciando a volte grandi gioie e altre profonde sofferenze, e il buio di tutto ciò che è rimasto incompiuto, che l’uomo ha trattenuto dentro un sé che non è stato in grado di fare quel salto fondamentale a cambiare qualcosa, o a prendere maggiore coscienza di sé proprio in virtù dello strappo provocato dal cambiamento. Ma la notte è anche rigeneratrice perché in fondo anticipa un nuovo giorno e quindi l’ultima parte del dipinto può non essere una fine bensì costituire una speranza per l’uomo protagonista del dipinto, un’opportunità per accogliere ciò che fino a quel momento non è stato in grado di lasciar affiorare. Dunque strati di colore che nascondono, svelano, parlano e raccontano attimi pur rispettandone l’intimità di corpi nudi in cui la nudità, appunto, è necessaria per descrivere uno stato d’animo, un moto interiore che solo attraverso lo spogliarsi dalle convenzioni, dai veli e dagli schemi, può essere accolto.
Gialli, rossi, neri, bianchi, sono le sue tonalità predilette, così come l’acrilico è il tipo di colore più adatto alla sua pittura veloce, frutto di un impulso, di un impeto creativo che non può essere rallentato dall’asciugatura lenta dell’olio.
È anche scultore Guido Adaglio, prende legni ormai senza vita e gliene dona una nuova: la serie Alberi infatti vuole raccontarne la storia, interpretata secondo il sentire dell’artista che recupera ciò che era morto e invisibile e lo ricompone con una forma inedita, seguendone gli intrecci clorofilliani, studiandone i nodi, quasi a volerne ascoltare la storia e solo dopo forgiarle con una nuova veste. Nel corso della sua carriera Guido Adaglio ha partecipato a numerose collettive e fiere internazionali, tutte o quasi nel territorio piemontese, ottenendo grande successo di pubblica e di critica. Un artista di grande introspezione e carattere espressivo.
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