Per alcuni artisti rientrare in un determinato stile pittorico sembra essere limitante per riuscire a liberare la propria vivacità espressiva, l’indole innata che li spinge a sperimentare costantemente nuovi linguaggi, mescolarli e dar vita alla modalità comunicativa più affine alle proprie corde senza appartenere a nessuna corrente predefinita. L’artista che scopriremo oggi ha effettuato quel tipo di percorso di crescita e di affrancamento dalle regole che le permette di narrare le proprie emozioni senza chiudersi all’interno di uno schema.
Nel momento in cui si delinearono i movimenti pittorici della prima metà del Novecento ciò che sembrava essere un punto in comune tra tutti era sovvertire e distaccarsi dalle regole artistiche dominanti nei secoli precedenti per adeguarsi ai tempi moderni in cui tutto era in evoluzione e dunque richiedeva un inedito approccio al modo di fare arte. In particolar modo l’Informale Materico da un lato e l’Espressionismo Astratto dall’altro, sottolinearono l’importanza della non forma per dar vita a un messaggio più ragionato e concettuale nel caso del primo oppure più impulsivo e immediato nel caso del secondo, e furono le correnti che più di tutte si imposero di rompere completamente i ponti con la figurazione che invece nelle prime avanguardie rimase strettamente connessa e base di partenza delle rivoluzioni espressive generate dall’Espressionismo, dal Futurismo, dal Cubismo e dal Surrealismo. Sebbene le due correnti non figurative apparissero inizialmente distanti per intento creativo, di fatto con il passare degli anni e con il dialogo costante tra gli artisti, che peraltro aveva da sempre contraddistinto l’atteggiamento di apertura dei grandi maestri anche nei secoli precedenti, l’Espressionismo Astratto e l’Informale Materico andarono via via aprendosi l’uno all’altro e sinergizzandosi attraverso quella contaminazione espressiva che tanto caratterizza l’arte contemporanea. La linea distintiva tra i due continuò a essere l’impulso pittorico e più strettamente legato al colore, seppur steso o lanciato in modo denso e a rilievo avvicinandosi di fatto a un elemento materico, mentre invece per l’Informale la materia prese il sopravvento e le tonalità utilizzate furono puramente comprimarie o completanti le sensazioni raccontate plasmando materiali di uso comune e trasformati in elementi fondamentali dell’opera. Eppure osservando sia un’opera di Jackson Pollock che una di Alberto Burri non si può fare a meno di essere travolti dal loro impeto, dalla loro intensità descrittiva di sensazioni talmente impellenti da dover essere narrate, o per meglio dire urlate senza poter essere trattenute. Il percorso artistico di Viola De Matteo, artista lombarda di forte pathos espressivo, comincia avvicinandosi prima alla figurazione per poi dirigersi verso la necessità di lasciar fluire le sensazioni in maniera più libera, senza dover sottostare a schemi e regole che non sente affini alle proprie caratteristiche; l’Espressionismo Astratto sembra così essere lo stile che le consente di abbandonarsi al puro sentire, a quell’intensità emotiva che necessita la non forma, la gestualità istintuale per essere in grado di narrare i moti interiori.
Nel suo cammino di sperimentazione artistico però comincia a sentire l’esigenza di uscire dal suo stesso identificarsi con un solo stile pittorico e così decide di volerlo oltrepassare inserendo elementi riconducibili a quell’Informale Materico che in qualche modo rallenta l’impeto creativo, lo rende più meditato e riflessivo inserendo elementi più solidi, più concreti, più orientati a mettere in evidenza i concetti rendendoli presenti fisicamente sulla tela.
L’opera La forma dell’acqua appartiene a questa serie di tele, quelle in cui l’elemento materico si armonizza con l’ambientazione scelta, quella di un luogo non luogo in cui lo sguardo si perde nell’azzurro dell’acqua, non importa che sia lago o mare o fiume, ciò che diviene essenziale è il tentativo molto umano di provare a dare una forma e un senso a ciò che non può averne, poiché già il fatto di scorrere presuppone una costante modifica che rende l’acqua, come in fondo la vita, indefinibile. Il concetto eracliteo della perpetua trasformazione è un punto focale della produzione artistica di Viola De Matteo, uno spunto di riflessione in virtù del quale si interroga sul senso della vita, sulla necessità di evolvere e di accettare la costante fluttuazione delle sensazioni, delle emozioni, dei pensieri e dei punti di vista che, di accadimento in accadimento ci inducono a salire su un gradino di conoscenza superiore.
In Sinapsi la De Matteo esplora la capacità della mente logica di creare collegamenti tra eventi e informazioni spesso ignorate o apparentemente dimenticate fino al momento in cui emergono; la base della tela è chiara ma poi contaminata da tracce nere più o meno marcate, che possono idealmente costituire le informazioni scaturite dall’esperienza, e da un’area di arancione probabilmente accomunabile all’imprevisto, all’irrazionalità che erompe e che turba la logica pur rendendo quella stessa mente che vorrebbe tutto ordinato, decisamente più vivace e divertente.
In Acque libere l’artista si misura con il tema dell’individualità, della capacità di distaccarsi dalle regole imposte e di dirigersi verso un inedito e personale modo di vedere; questo concetto è sottolineato dalla gamma cromatica utilizzata, decisamente decontestualizzata dal tema del titolo perché in fondo l’acqua stessa non necessita un’appartenenza per essere in grado di scorrere. Il giallo, il bianco, il nero, rappresentano la capacità di essere senza il bisogno di riconoscersi in uno schema, o nel caso dell’acqua di un colore, predeterminato.
Nell’opera Divino e materia invece l’argomento esplorato è quello della spiritualità a cui la De Matteo non attribuisce colori chiari e impalpabili bensì identifica con tonalità terrene, intense e scure perché è solo andando a fondo a se stessi, scendendo nelle profondità, che è possibile guardare verso l’altro, trovando un gancio, un modo per essere rassicurati sulle incognite dell’esistenza, sulle grandi domande che attraverso una profonda fede, qualsiasi essa sia, possono essere svelate oppure semplicemente accolte come parte integrante di una vita incompleta in cui non è possibile conoscere ogni cosa affidandosi così a un divino salvifico e onnisciente. L’espressività di Viola De Matteo si esprime attraverso tonalità che si adeguano, si armonizzano ai concetti narrati nelle sue tele, in cui l’impeto creativo si mescola al suo bisogno innato di cercare una spiegazione, di fornire un punto di osservazione e di indurre l’osservatore a riflettere su argomenti che diversamente sfuggirebbero perdendosi all’interno dell’abitudine del vivere.
Diplomata all’Istituto d’Arte di Cantù, in provincia di Como, rinuncia a perseguire il suo sogno artistico per lungo tempo fino a quando gli accadimenti della vita non la mettono davanti all’opportunità di trasformare la sua passione in lavoro e di rendere visibili le opere che fino a quel momento erano rimaste solo racconto della sua intimità senza che lei trovasse il coraggio di mostrarle. Da quel punto in avanti espone in diverse mostre collettive e personali in Lombardia e, nel 2020, si classifica al secondo posto nel Concorso Internazionale presso la Facoltà Russa di I.A. Bunin.
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