La tendenza ad andare oltre il visibile per scavare nelle profondità o, per meglio dire, nei significati nascosti all’interno di un’immagine che tende a farsi notare per la sua estetica, appartiene ad alcuni artisti in grado di compiere un percorso in cui non è necessario rinnegare o annullare la figurazione per riuscire a far trapelare la sostanza, ciò che può condurre a una meditazione, una riflessione che si spinge più a fondo di un primo superficiale sguardo. La protagonista di oggi ha la capacità di coniugare perfezione estetica con quel concetto celato che emerge dalle opere e giunge fino all’osservatore.
Intorno alla fine degli anni Sessanta del Novecento cominciò a delinearsi un nuovo movimento pittorico che traeva spunto dall’esigenza di attenersi alla realtà quotidiana e alla vita delle persone comuni, superando i simboli e la corsa al consumismo, che erano stati elementi fondanti della Pop Art; il Fotorealismo volle allontanarsi dalla sottile ironia e dalla velata denuncia dell’impulso all’acquisto di oggetti di uso comune che caratterizzavano la società degli agiati anni d’oro del boom economico, introducendo tra le linee guida la necessità di raggiungere una perfezione pittorica che doveva creare l’illusione ottica di trovarsi di fronte a una fotografia, senza alcuna analisi, senza alcun giudizio morale o sociale. La naturale evoluzione del Fotorealismo fu l’Iperrealismo in cui la tendenza fotografica del movimento pittorico precedente venne estremizzata al punto da rendere indistinguibile l’immagine riprodotta attraverso il gesto artistico da quella derivante da scatti di una fotocamera. I soggetti preferiti dei grandi iperrealisti degli anni Settanta erano scorci urbani, grattacieli e strade, come nella produzione di Richard Estes che amava particolarmente le superfici riflettenti come vetri ed elementi in metallo delle ipermoderne vie cittadine, volti, come negli incredibili ritratti di Chuck Close, nature morte contemporanee, come nei tavoli dei fast food in cui restano ketch up, sale, ciambelle e caffè delle opere di Ralph Goings o nei distributori di caramelle e chewingum e nelle incredibili argenterie di Charles Bell. Tuttavia le meravigliose immagini, proprio a causa della loro assoluta ricerca della perfezione e aderenza alla realtà osservata, apparivano in qualche modo fredde, senza quel calore o quello stimolo alla meditazione, all’introspezione, che l’arte da sempre comunica e induce nell’osservatore e così, nel Ventunesimo secolo, tempo di evoluzione e di superamento del passato per fare strada a un nuovo presente, alcuni artisti aderenti alla corrente dell’Iperrealismo hanno sentito l’esigenza di inserire nelle loro tele un legame, la spinta, verso l’approfondimento e ad andare oltre ciò che lo sguardo vede per riflettere sui concetti universali che appartengono al vivere contemporaneo. L’artista pugliese Angioletta De Nitto compie questo percorso personalizzando e ammorbidendo l’Iperrealismo, che le appartiene come una seconda pelle, avvolgendolo di esplorazione del visibile, di interrogativi, di pensieri sullo scorrere del tempo, su ciò che resta e su ciò che invece viene portato via da un avanzare che spesso sfugge.
Ecco dunque che il suo stile può definirsi Iperrealismo Metafisico poiché del primo conserva la perfezione e la fedeltà alla realtà osservata, al secondo invece attinge per la naturale tendenza ad andare oltre, a oltrepassare il confine con l’impeccabile estetica per scoprire cosa si nasconde dopo, dietro la patina lucente, al di là dell’apparente semplicità di un oggetto che, in virtù della tendenza all’esistenzialismo tipica dell’era contemporanea, può rivelare molto di più di quanto sembri a un primo sguardo.
L’opera Lineare sembra voler narrare dei percorsi della vita, quelli nei quali si crede fermamente di poter procedere in maniera diretta e chiara ma che in realtà si rivelano più tortuosi, più complessi, più lunghi di quanto si sarebbe immaginato, senza per questo compromettere il risultato, o meglio l’obiettivo finale.
Emerge un’esortazione della De Nitto in questa tela, un approccio positivo nei confronti del sogno che, sebbene appaia ostacolato e dunque difficile da raggiungere, va comunque perseguito perché le barriere costituiscono solo muri da aggirare, i problemi che sopraggiungono solo eventi a cui trovare una soluzione.
Nella tela Alchime l’artista racchiude una natura morta all’interno di una sfera di vetro come se quest’ultima fosse uno scrigno protettivo nei confronti di un ricordo, o semplicemente di una quotidianità da tenere nascosta e protetta dal mondo esterno; la deformazione della superficie convessa della sfera suggerisce la tendenza a osservare le cose dal proprio punto di vista, nel momento in cui viene a mancare l’interazione con l’altro, con qualcuno che può aprire lo sguardo verso angolazioni differenti e dunque, suggerisce Angioletta De Nitto, diviene necessario uscire dal proprio guscio, dalle proprie certezze, per aprirsi alla sinergia e all’apertura verso ciò che esiste al di fuori.
Questo tipo di contrapposizione tra interno ed esterno si ripresenta anche nell’opera Libera, in cui una farfalla, che rappresenta l’anima, l’interiorità delicata e leggera, da un lato viene protetta dalla sfera, dall’altro però non potrebbe uscirne anche volendolo e quindi quella dell’artista è una rappresentazione dell’incertezza, del bilico, tra l’essere se stessi anche a rischio di sentirsi esposti e dunque fragili, e il restare all’interno di una zona sicura in cui non ci si mette in pericolo, è vero, ma neanche si evolve verso un’esistenza diversa, magari chissà, anche migliore.
Nella tela Antichi giochi traspare un senso nostalgico nei confronti di una semplicità che nell’epoca attuale sfugge, di un tempo in cui non esistevano i veloci mezzi di riproduzione dell’immagine e i bambini giocavano insieme perché la socialità era importante, fondamentale per la loro crescita, quando gli schermi dei telefonini non esistevano e si correva a inseguire le biglie o a saltare con la corda.
L’Iperrealismo di Angioletta De Nitto si avvale anche di inserti materici come strass e cristalli Swaroski, plexiglas, juta che si inseriscono in maniera discreta all’interno della perfezione riproduttiva in cui viene sapiente mescolata l’estetica con un intenso approfondimento concettuale. Inizialmente restauratrice, Angioletta De Nitto sceglie di dedicarsi interamente alla professione artistica a partire dal 1995; ha al suo attivo numerose mostre personali su tutto il territorio nazionale e partecipazioni a importanti collettive e fiere internazionali in collaborazione con prestigiose gallerie d’arte italiane.
ANGIOLETTA DE NITTO-CONTATTI
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