Cinema

Lo spirito del Sud che avanza nel mondo, colloquio di Old Cinema con Sergio Rubini

TARANTO – Vi proponiamo qui di seguito un’intervista che lo staff di Old Cinema ha fatto a Sergio Rubini nella cornice di ‘Genialità Italiana sotto le stelle’, prevista a Taranto il 7 e 8 luglio.

Sergio Rubini, a cosa sta lavorando?
«Sto scrivendo il nuovo film con Rocco Papaleo, che girerò tra il 2017 e 2018. Dopo ferragosto, sarò sul nuovo set di Pippo Mezzapesa, tra la Puglia e la Campania. A seguire, mi attende la regia di un’opera lirica: la Carmen, al teatro lirico di Novara, in collaborazione con il Teatro dell’Opera di Messina».

Cosa significa per lei la genialità: dove la cerca, come la coltiva in sé stesso, dove la incontra sul set e nella vita?
«Io non cerco la genialità. L’ho intravista più volte, in poche persone. Ritengo poi di aver compreso come si coltiva e come il vero tratto geniale sia proprio l’abbandonarsi al proprio genio. Spesso siamo portati a misurarci con cosa dobbiamo studiare. Ma il vero genio non si preoccupa di questo. Come Mozart, quando una sera, dovendo scrivere una lettera alla sorella ed essendo stanco, preferì scriverle una sinfonia. Fellini era un genio: un poeta, un vero artista, con un approccio intellettuale ma anche sensitivo alla realtà, e insieme grondante di umanità».

Esiste secondo lei un genio corale, o meglio uno spirito dei luoghi?
«Sono convinto che esista uno spirito del Sud, e per questo nel mondo è il Sud che avanza. La Puglia ne fa parte, lo fa abitare nei suoi luoghi. È una stratificazione della memoria, dei luoghi che trasudano passato e futuro, in un insieme di registri che arricchisce e insieme genera conflitto: quanto c’è di vitale e ricco è spesso anche arcaico, cela zone buie, rozze, talora anche violente della realtà. Questa è la vera peculiarità del Sud, che – credo – permane nei suoi giovani, oltre la tecnologia e la globalizzazione. In fondo anche gli integralismi del mondo, oggi, convivono con la tecnologia: addirittura producono incapacità di dialogo con gli altri. Invece la storia è fatta di consapevolezza, e al Sud già in famiglia si tramandano modi di essere e una cultura; in alcune scuole si torna a insegnare il dialetto; tanti nostri centri storici sono stati recuperati».

Cosa ha significato girare il suo primo film da regista, ‘La stazione’, proprio nella sua terra, la Puglia?
«È un film a cui sono molto legato, fatto con poca consapevolezza e molta passione, come un figlio concepito senza pensarci troppo su, con impeto. Quindi ci penso con un po’ di sospetto: con affetto ma anche una sana diffidenza. Non lo vedo da tanto tempo e l’evento di Taranto sarà un’occasione per farlo».

Ci racconta il suo rapporto con Federico Fellini, che la volle giovanissimo nel film ‘L’intervista’ del 1987, e con Ettore Scola che l’ha diretta in ‘Che strano chiamarsi Federico’, il documentario omaggio a Fellini del 2013?
«Il mio rapporto con Scola è stato mediato da quello con Fellini, soprattutto nell’ultima fase. Per molto tempo ho pensato che mi avesse scelto solo perché venivo dal mondo felliniano, ma in seguito mi chiamò per un altro film, che purtroppo non si fece più, e inoltre scoprii che conosceva i miei film: fu una vera gioia per me. Il rapporto con Fellini invece è stato più lungo, fatto di una frequentazione assidua. L’ho incontrato da ragazzo, e c’è un filo che ancora oggi mi porta a rispondere alle domande su di Fellini. Per me era lui grande, era tanto. Io non riuscivo neanche a dargli del tu, come invece lui pretendeva. Ma poi abbiamo condiviso tanti viaggi per i film, andavamo insieme a teatro, mi ha fatto riscoprire Kafka, Chaplin, e il suo stesso cinema. Mi ha fatto conoscere, anche personalmente, Pina Bausch, mi ha fatto entrare nel mondo di Balthus, di Scorsese. È stato una specie di padre, ma anche il fratellino monello: quindi il padre migliore che si possa desiderare, quello che ti porta in giro, che non ti rompe le scatole, al quale vorresti vivere accanto per sempre».

Old Cinema, anche con ‘Genialità Italiana sotto le stelle’, crea reti di artisti per un nuovo cinema possibile. Una “famiglia di artisti” come quelle che lei ha vissuto a teatro e nel cinema (con Marino, Salvatores, Veronesi, Piccioni, Abatantuono) ha una sua maggiore forza produttiva?
«Certo. Il vero guaio e che tutto questo è avvenuto troppo poco. Non abbiamo costruito veramente una rete, come aveva fatto la vecchia generazione: noi siamo stati divisi e distrutti dagli anni Ottanta, che hanno schiacciato l’aggregazione in nome dell’edonismo, e il cinema italiano così si è perso. Prima esisteva uno spettatore medio che diceva “Io non vedo cinema italiano”. Tutto questo è cambiato grazie a registi come Giuseppe Tornatore, Nanni Moretti e molti altri. Poi questo traguardo si è di nuovo perduto e il cinema è tornato nelle mani dei produttori, che ragionano alla sola luce delle leggi del mercato, ma che non sono veggenti. Le loro scelte sono spesso repliche di successi del passato. Invece gli artisti sono degli apripista. Sono d’accordo che il cinema torni al pubblico, e nelle mani dei “bottegai” e degli artisti: la nostra è un’industria del cinema artigianale».

Cosa pensa del futuro della sala cinematografica? Può essere una soluzione quella di portare il cinema in piazza, come fa ‘Genialità Italiana’?
«Torniamo alle cose piccole, provinciali: anche un piccolo gesto come quello di ‘Genialità Italiana’ rinfoltisce la passione per il cinema. Spogliato da tutta la sua retorica, il cinema è questo: un uomo che racconta una storia, e un altro che ascolta, e questo non finirà mai. Il cinema è uno schermo: ovunque esso sia. I suoi luoghi oggi sono infiniti. Non si può giudicare chi vede un film sul piccolo schermo. Venti persone che guardano un film piratato in casa sono comunque spettatori da considerare: vanno solo indirizzati verso un mercato più giusto. Nel mercato musicale, con iTunes gli utenti hanno smesso di piratare, grazie a regole più giuste. Bisogna interpretare il futuro, e il futuro è un mercato ampio, senza limitazioni, con un film che esce su tutte le piattaforme, senza temere il danno agli esercenti delle sale cinematografiche: anzi, chi vedrà il film su tablet, se lo apprezza, ne parlerà bene a un altro che magari lo andrà a vedere in sala. Ognuno abbia il suo schermo. La sala non va preservata come un dinosauro. La sopravvivenza del cinema non attiene al luogo, ma al format. Quello delle serie, per esempio: sono bellissime, certo, ma la loro infinitezza le priva di senso. Non aprono un dialogo interiore. Mentre i film significano perchè finiscono: bisogna difendere la durata».

A proposito di format, come valuta la forma del documentario partecipato, come quello di ‘Genialità Italiana’, mutuato da Ridley Scott e dal nostro Gabriele Salvatores?
«La trovo davvero una bella idea. Il compito più arduo sarà di chi farà il montaggio. Ci saranno storie geniali, ma fuori tema, oppure sarà interessante proprio andare fuori tema…».

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Redazione L'Opinionista

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