Sarah Stride ci ha gentilmente concesso un’intervista.
“Luna raccolta” è il tuo nuovo singolo, di che cosa si tratta? Cosa vuoi trasmettere con questo brano?
“Luna Raccolta” è un brano che si è praticamente scritto da solo. Sono stata travolta dalla commozione dopo un incontro fatto per strada, un incontro durato pochissimi istanti ma che è stato veicolo per qualcosa che avevo bisogno di raccontare. Camminavo per i vicoli di Genova e alla fermata del bus ho visto una signora eccentrica, grottesca, anziana, con una corona e un mazzo di fiori. Ho sentito subito addosso la sua poesia dolorosa, la sua solitudine e la sua bellezza. Mi sono fermata venti passi dopo e, in lacrime, ho scritto il testo di getto. In una sua celebre poesia, Mariangela Gualtieri scriveva: “Io salverò la delicatezza mia, la delicatezza del poco e del niente, del poco poco, salverò il poco e il niente il colore sfumato, l’ombra piccola, l’impercettibile che viene alla luce, il seme dentro al seme, il niente dentro a quel seme. Perché da quel seme nasce ogni frutto. Da quel niente tutto viene”. “Luna raccolta” è la mia poesia, il mio piccolo tentativo di salvare la delicatezza altrui.
Che tipo di accoglienza ti aspetti?
Ah, per fortuna ho smesso di aspettarmi qualsiasi cosa! In generale credo nell’importanza dei percorsi, del fare semplicemente perché è necessario “fare” senza troppo curarsi del consenso che il proprio lavoro potrà trovare. Mi rendo perfettamente conto di proporre un progetto di non immediata fruizione ma credo anche che il simile chiami il simile per cui questi brani arriveranno dove è giusto che arrivino. Per ora sono ferma con i concerti perché sto lavorando alla scrittura dell’album ma è proprio la dimensione dei live, quella del corpo e della trasmissione, quella dove sperimento davvero “l’accoglienza” del pubblico.
Come ti sei avvicinata al mondo della musica?
Genealogicamente, da generazioni, la musica, soprattutto quella classica, è stata una protagonista nella mia famiglia e cantare, in casa mia, è sempre stata la forma di comunicazione più autentica, uno spazio neutro di condivisione e di tregua. Da che ho memoria di me, ho sempre cantato e ho sempre voluto fare solo quello, come se non avessi altra scelta. La necessità di comporre è invece arrivata un po’ più tardi, in adolescenza, quando ha iniziato ad essermi chiaro che la musica non fosse solo uno sfogo, un divertimento ma qualcosa di indissolubilmente intrecciato a me e alla quale non avrei potuto sottrarmi. La mia cura, la mia possibilità di esistere in una diversità che finalmente trovava il modo di potersi manifestare fuori di sé.
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