«Davanti a malattie per le quali non ci sono cure, occorre percorrere la strada della prevenzione cercando di evitare che possano essere trasmesse dai genitori ai figli», sottolinea Michael Jemec (foto), direttore medico di ProCrea. «In questo senso, l’importanza della diagnosi preimpianto è stata riconosciuta sia dall’Italia, con il pronunciamento del Tribunale di Milano del luglio scorso che, confermando l’ordinanza di metà aprile, ha ribadito che se una coppia è affetta da una malattia genetica grave, tale da poter portare ad un aborto terapeutico da parte della donna, la coppia ha diritto di ottenere la PGD, sia dalla Svizzera che dal primo settembre ha visto l’entrata in vigore della revisione della legge sulla medicina della procreazione assistita dove si introduce la diagnosi preimpianto, solo se richiesto da una coppia portatrice di una grave malattia genetica ereditaria o da una coppia che non può avere figli naturalmente».
Ma cos’è la diagnosi genetica preimpianto? La PGD è una diagnosi che permette di identificare la presenza di malattie genetiche o di alterazioni cromosomiche in fasi molto precoci di sviluppo. Può intervenire già a livello dell’ovocita, andando ad analizzare i cosiddetti globuli polari in coppie a elevato rischio riproduttivo, prima che gli embrioni da essi derivati siano impiantati nell’utero, oppure pochi giorni dopo la fecondazione. Spiega il direttore medico di ProCrea: «La PGD sui globuli polari di fatto non va ad interessare l’embrione. È però questa una diagnosi che può fare solamente una valutazione del materiale genetico proveniente dal ramo materno; quindi non si possono vagliare le eventuali malattie genetiche del papà».
Più approfondita la diagnosi fatta sull’embrione Continua Jemec: «In questo caso la tecnica prevede l’analisi delle cellule del trofoectoderma della blastocisti, ovvero le cellule che andranno a formare la placenta. Con questo tipo di diagnosi è possibile analizzare il materiale genetico proveniente sia dalla mamma sia dal papà. La biopsia viene effettuata già al quinto giorno dopo la fecondazione dell’ovocita, quando si è formato un conglomerato di cellule che ha un diametro poco più grande di un decimo di millimetro».
L’obiettivo di questa tecnica è duplice, conclude Jemec: «Impedire la trasmissione di patologie ereditarie e, al contempo, evitare l’eventuale ricorso all’aborto terapeutico».
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