Anche perché se noi abbiamo dato qualcosa a lui, lui ha dato molto di più a noi.
A Sud dell’Algeria, nel cuore dell’Africa, c’è uno Stato fra i più poveri al mondo.
Si chiama Mali. Ha una estensione quattro volte più grande dell’Italia, non ha accesso al mare, e per buona parte è costituito dal deserto del Sahara; solo al Sud beneficia del grande fiume Niger. Il Mali è un paese in cui venti diverse etnie hanno saputo conservare ciascuna il proprio idioma, i propri costumi e soprattutto l’arcaica nobiltà, non cancellata nei loro fieri sguardi della miseria attuale. Ex colonia francese, ha proclamato sessant’anni fa la sua autonomia, ma è stato percorso ed ancora percorso da lotte di potere che non si sono spente.
In uno sperduto villaggio sui bordi del deserto del Sahara circa vent’anni fa è nato Maliba. Diciamo “circa” perché anche lui non sa esattamente la sua data di nascita, non esisteva un’anagrafe al villaggio.
Circa cinque anni fa il padre di Maliba muore, e il primogenito Maliba si trova a capo della famiglia composta da dieci fratelli più piccoli e da due madri. Il padre di Maliba era musulmano ed aveva due mogli. Malima: “Anche l’altra è la mia mamma”. Spinto dalla responsabilità di capofamiglia e dalla terribile miseria che attanaglia i suoi cari, Maliba decide di partire, avendo per meta l’Italia.
Non sa esattamente dove sia l’Italia, non conosce la geografia, ma suo padre gli aveva detto che l’Italia aveva vinto la Coppa del mondo di calcio, e sceglie quella. Potenza del pallone.
Dunque Maliba raccoglie i pochi risparmi di famiglia, di amici e conoscenti (in Mali la solidarietà è più solida che da noi) e parte su un furgone cassonato Daily insieme ad altri ventiquattro maliani verso Nord, attraverso il Sahara.
Il viaggio fino alle coste del Mediterraneo dura due mesi, con sofferenze indicibili; alcuni dei suoi compagni non ce la fanno: ma tralasciamo questa dolorosa odissea. Malba riesce ad imbarcarsi su un gommone, ed approda a Lampedusa.
La sua testimonianza sulla accoglienza ricevuta è positiva: guardia costiera italiana gentile, centri d’accoglienza vivibili ancorchè affollatissimi di una umanità la più varia, e talvolta difficile e pericolosa.
Nel centro di Lampedusa i suoi compagni di viaggio litigano per contendersi il telecomando dell’unico apparecchio tv presente, ai carabinieri accorsi per sedare la lite Maliba dice: “Per me, potete anche bruciare il televisore, io devo studiare per imparare un lavoro”.
Incomincia quando può a studiare: studia l’Italiano, la geografica, la matematica, si fa aiutare da chi ne sa più di lui.
La rete dei vari centri di soccorso umanitari fa arrivare Maliba a Reggio Emilia. Maliba chiede di studiare, gli specializzati Centri d’orientamento lo accontentano e lo iscrivono…in un liceo. Maliba frequenta diligentemente, capisce poco, ma abbastanza per rendersi conto che quel tipo di studio non è ciò che gli serve per imparare un lavoro.
Chiede ai suoi insegnanti, al preside, di studiare quanto serve per imparare un lavoro, e finalmente viene ascoltato, ed iscritto ad un Istituto professionale. Ma l’istituto non è a Reggio Emilia, bensì in un grosso centro dell’Appennino: sicchè Maliba, che non ha mezzi, con mille sacrifici riesce comunque a frequentare. Per un anno, la sua frequenza a scuola è esemplare.
Maliba assiste alle malefatte dei suoi compagni di corso, vede che qualcuno si droga, qualche altro coglione che fa il bullo, qualcun altro imbecille che fa atti vandalici sull’arredo scolastico. Scuote la testa e dice: “Loro non conoscono la vita”.
Finito l’anno, i Centri d’accoglienza riescono a trovargli un lavoro temporaneo in città, i suoi datori di lavoro apprezzano la serietà e l’impegno di Maliba: ma il lavoro finisce.
Maliba rimane senza mezzi in città e si rivolge con dignità ai suoi insegnanti dell’Istituto professionale. Un insegnante che lo ha conosciuto bene gli fa un prestito di cinquecento euro, qualche sprazzo d’umanità c’è anche da noi.
Maliba trova un secondo lavoro temporaneo nella Bassa, quattrocentocinquanta euro al mese: per cinque mesi, alla fine d’ogni mese, prende l’autobus fino all’Istituto montano e restituisce cento euro per volta, il prestito ricevuto, fino all’estinzione. Nel frattempo, anche grazie ad un positivo attestato di frequenza dell’Istituto professionale, Maliba si è iscritto all’Istituto tecnico Industriale del Capoluogo, corsi serali: “perché voglio studiare per imparare un lavoro, devo aiutare la mia famiglia e il mio villaggio”.
Sembra impossibile che un profugo come Maliba, che vive fra mille difficoltà, possa in qualche modo aiutare la sua famiglia in mali. Ma sapete quale cifra è necessaria perché la famiglia di Maliba possa mangiare decentemente per un anno in Mali? Ottocento euro. Con ottocento euro i dieci fratelli e le sue due mamme di Maliba possono mangiare, e bene, per un anno intero. Il costo di una borsetta firmata, ma di quelle di mezza tacca, quelle importanti costano parecchie migliaia di euro.
Ora Maliba è stato assunto da una ditta metalmeccanica di un paese della Bassa. Gli hanno promesso un contratto a tempo indeterminato, la sua paga oggi è maggiore di quella degli insegnanti dell’Istituto professionale.
Lavora ad una macchina a controllo numerico, pare che solo lui sappia estrarre il meglio (come qualità di prodotto, e quantità) dalla macchina.
Nel suo villaggio non c’è acqua e le donne devono fare un chilometro e mezzo per riportare a casa, in una brocca sulla testa, l’acqua necessaria per vivere. Maliba sta facendo scavare un pozzo. Ora sono arrivati a sei metri sottoterra, niente acqua ancora.
C’è roccia, lo scavo procede lento ma Maliba è sicuro: “A quindici metri troveremo l’acqua”, dice.
Tutti i suoi spostamenti Maliba li ha fatti a piedi, o in bicicletta; ma ora che ha un lavoro, Maliba ha preso la patente ed ha in animo d’acquistare, ovviamente a rate, un’automobile usata. Per questo, si fa aiutare dai suoi vecchi insegnanti dell’Istituto professionale, che non lo hanno perso d’occhio, e quando possono gli danno ancora una mano.
E Maliba non si ferma. Continua a frequentare, la sera, l’Istituto Tecnico industriale, dicendo:
“…perché voglio studiare per imparare un lavoro, devo aiutare la mia famiglia e il mio villaggio”.
Anche noi, forse, dobbiamo imparare qualcosa da Maliba.
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