LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE E L’ARABA FENICE
Il PD rinasce dalle proprie ceneri, tonfo del PdL, crollo del M5S
La tornata delle elezioni amministrative ha dato un risultato inequivocabile. Il Centrosinistra (PD, SEL e liste civiche collegate) ha stravinto le competizioni locali quasi ovunque. Il Centrodestra (PdL, Lega e liste civiche) ha ceduto terreno nella maggioranza assoluta dei comuni e ha lasciato il campo sconfitto in storiche roccaforti (Imperia, feudo dell’ex ministro Scajola; Treviso, dal 1994 al sindaco-sceriffo Gentilini; Brescia e soprattutto Roma, sicuramente il test più importante, strappata ad Alemanno da Ignazio Marino, sul quale vi erano parecchi dubbi alla vigilia da parte di molti esponenti PD). Il MoVimento 5 Stelle, già in forte crisi per le polemiche interne, le espulsioni, i problemi di comunicazione e la disfatta alle regionali in Friuli-Venezia Giulia, ha perso consensi con percentuali bulgare (in molte realtà un crollo che va dal 50% al 70% dei voti ottenuti alle politiche di Febbraio). Ma il “trionfatore” delle elezioni è stato sicuramente l’astensionismo. Non può definirsi fisiologico il 52% degli elettori rimasti a casa. Non lo è e denota un malessere profondo. Un ulteriore sfilacciamento del filo, sempre più sottile, che collega cittadini ed istituzioni: partiti, Parlamento, Governo, magistratura, Enti locali…
Ma se, alle Politiche di Febbraio, la sfiducia nei confronti dei due poli che negli ultimi 20 anni si sono rimpallati il controllo della cosa pubblica aveva reso clamoroso il risultato della novità antisistema rappresentato dal M5S, limitando anche l’astensionismo, stavolta la disillusione verso la politica ha accomunato e bersagliato tutti. Così ai voti in libera uscita dai poli tradizionali si sono sommati quelli degli scontenti del MoVimento, facendo dell’astensionismo il primo movimento (con la m minuscola) politico nazionale. Perché è indubbio che oggi l’astensione abbia appartenenza politica e il non voto rappresenti, comunque, una scelta politica. Dopo la sbornia grillina, sulla scena non sembra esserci nessuno capace di infiammare gli animi e interpretare le speranze degli italiani. Molto dipenderà da ciò che riuscirà a combinare il governo Letta: la deriva antipolitica e antipartitica può essere invertita solo con buona politica e risultati concreti.
IL PD COME L’ARABA FENICE - Il Centrosinistra, con il PD in primis, ha indubbiamente vinto le amministrative. E lo ha fatto anche, in un certo senso, anche in modo imprevisto, almeno con queste dimensioni. Il senso della sorpresa è ampliato se lo si compara a quanto è riuscito a combinare (in negativo) il PD nelle settimane successive alle Politiche di Febbraio: la mancanza di maggioranza al Senato, l’umiliazione degli incontri in streaming con i rappresentanti del M5S per formare un Governo, l’harakiri con le centinaia di franchi tiratori per Marini e Prodi alle elezioni del Presidente della Repubblica, le dimissioni del segretario Bersani e soprattutto il boccone amaro dell’inevitabile governo con il detestato caimano. Insomma un partito a pezzi, dilaniato dalle correnti, con la base in rivolta e in preda a convulsioni degne di un film come Fratelli coltelli. Ma tutto ciò non ha impedito la vittoria alle amministrative. Come l’araba fenice il PD ha saputo risorgere dalle sue ceneri. Lo ha fatto, innanzitutto, grazie ad un capillare radicamento sul territorio: eredità della formidabile struttura territoriale del PCI-PDS-DS. Il PD, appunto per questo suo substrato culturale, è un partito “pesante”, agli antipodi rispetto alle organizzazioni “leggere” tante volte accostate al Cavaliere e alla disciolta “Forza Italia”.
Altra spiegazione plausibile di questo successo è rappresentato dalle primarie. In linea teorica, un candidato sindaco scelto dagli iscritti delle liste apparentate e facenti parte del Centrosinistra, è sempre una persona radicata sul territorio, legata magari anche da conoscenza personale e militanza comune con i frequentatori delle sezioni di partito. Insomma facilita la scelta della persona giusta. A volte, certamente, può non bastare per vincere ma resta un buon metodo per selezionare il candidato e per dargli anche maggiore forza nei confronti dei partiti.
L’ultima spiegazione ha una matrice “sociologica”. L’elettore di Centrosinistra (nonostante la cosiddetta Seconda Repubblica, con la fine delle ideologie, abbia reso l’appartenenza politica più fluida e meno forte la fedeltà al proprio partito di riferimento) ha tradizionalmente una propensione minore all’astensionismo. Questo dato, per certi versi anche misterioso, favorisce i candidati di Centrosinistra al ballottaggio ed è tanto tenuto in conto da spingere Berlusconi ad aver rifiutato sempre il sistema francese a doppio turno per il timore che la minore spinta al voto degli elettori di Centrodestra al secondo turno determinasse un danno forte anche alle Politiche.
I PERCHE’ DELLA SCONFITTA DEL CENTRODESTRA - Le elezioni amministrative, per la coalizione berlusconiana, sono state una delusione. Nemmeno troppo dissimulata nelle dichiarazioni dei leaders di partito (al contrario di come accade spesso in Italia: vincono tutti, sempre, perché abbondanti scusanti non si negano nemmeno allo sconfitto più sconfitto). La delusione è stata accentuata, soprattutto, dai sondaggi circolanti nelle settimane successive al voto delle Politiche. Il PdL era dato al 29%, largamente primo partito, in seguito al grande successo politico di Berlusconi nella gestione dell’intricata matassa uscita dal voto per il rinnovo del Parlamento. La strategia mediatica del Cavaliere mirante ad accreditarsi come statista, il congelamento dell’IMU, un clima finalmente propizio per affrontare i problemi seri della disoccupazione e della crescita… insomma, tutto lasciava presagire un risultato diverso per il Centrodestra. Eppure è arrivata una batosta. Perdere Roma è stato duro, per di più contro un avversario, Marino, sul quale vi erano parecchi dubbi alla vigilia da parte di molti esponenti del suo stesso partito, il PD, per la sua scarsa propensione ad essere affiancato nelle strategie della campagna elettorale. Ma perdere Imperia, Treviso, Brescia e altre città storicamente governate dal Centrodestra è stato pesante. Innanzitutto per le implicazioni d’immagine di una coalizione che, a livello locale, è sembrata allo sbando, senza leaders e radicamento.
I motivi di questa debacle sono stati molteplici. In primo luogo appare nettissima la differenza tra un piano nazionale, monopolizzato dalla figura carismatica di Silvio Berlusconi (capace, come visto più volte, di prendere in pugno il PdL e portarlo alla vittoria o al pareggio anche nelle situazioni più nere come nel 2006 o nel 2013) e un piano locale, dove risulta problematica l’individuazione di una ledership altrettanto solida e radicata sul territorio. Il porcellum, le cui liste bloccate hanno permesso e permettono l’elezione anche di personaggi avulsi dalla realtà politica locale, facilitano il paradigma sopra evidenziato.
Alla luce di ciò, essendo state elezioni locali, la sconfitta è stata sicuramente imputabile anche ad errori di valutazione nei candidati a sindaco. Il metodo delle primarie ha molti difetti ma, se usato seguendo regole precise, può aiutare a individuare la personalità giusta. Perché alle amministrative il vincolo di appartenenza politica tende a pesare meno, a tutto vantaggio della personalità e delle storie individuali dei candidati.
Un’altra causa probabile del risultato deludente è stata la stessa della vittoria del Centrosinistra, ma a parti invertite: gli elettori di Centrodestra “sentono” meno, storicamente, il richiamo delle urne e questo dato, specie nei ballottaggi, ha un peso non trascurabile. L’alta percentuale di astensionismo ha colpito tutti, ma in particolar modo Grillo e Berlusconi i cui elettori hanno deciso di rimanere a casa. Per sfiducia nei confronti del sistema e della politica e per incapacità di riuscire a sentirsi rappresentati da parte di politici che, nonostante le differenze proclamate, sembrano fatti di un’unica pasta.
Un’ultima spiegazione è assimilabile, almeno al Nord, al pessimo risultato della Lega. Negli ultimi vent’anni, l’alleanza con il partito che fu di Bossi era garanzia quasi assoluta di successo, specie nella profonda provincia veneta o lombarda. Ma ora il disco sembra essersi rotto. La Lega ha pagato, moltissimo, gli scandali che hanno colpito Bossi e la sua famiglia (le barche in Tunisia, le lauree in Albania, le ruberie di Belsito, i quattrini del finanziamento pubblico investiti in diamenti e in Tanzania… tutte cose sulle quali si pronuncerà la magistratura e che fino a sentenza definitiva rimangono un problema eminentemente politico) ma anche gli scontri interni sempre più feroci tra Maroni, il nuovo segretario federale, e il fondatore. La Lega ha perso lo smalto di forza politica concreta, attenta al territorio e incorruttibile. Un danno d’immagine incalcolabile.
I MOTIVI DEL CROLLO GRILLINO - Se per Berlusconi si è realizzata una seria battuta d’arresto, per il MoVimento 5 Stelle le elezioni amministrative sono state una Caporetto. Le due uniche località conquistate, Assemini e Pomezia, parlano chiaro sul risultato ottenuto. Tuttavia il dato più esemplificativo è che in nessuno dei capoluoghi di provincia o di regione interessati dal voto, il M5S è arrivato al ballottaggio. Ovunque i grillini si sono fermati a percentuali nemmeno lontanamente avvicinabili al grandioso risultato delle Politiche di Febbraio. Il 12,4% di Roma, il 7,3% di Brescia, il 5,7% di Avellino, l’8,6% di Siena o il deprimente 3,4% di Catania (città nella quale Grillo aveva raggiunto il 33%) riflettono un quadro lontano anni luce dal 25,5% si soli due mesi prima. Alle amministrative il MoVimento non è riuscito ad attrarre il voto di tutti coloro, la maggioranza assoluta, non si sentono rappresentati e l’astensionismo è esploso, non avendo più argini.
I motivi di questo pessimo risultato sono stati sia endogeni che esogeni. Infatti l’M5S ha pagato e continua a pagare duramente in termini d’attrattiva e d’immagine, tanti dazi: generati probabilmente anche dall’improvviso successo di una formazione che non aveva uomini, organizzazione, strategia e strumenti per poter reggere pressione. In primo luogo hanno influito la delusione per le eccessive aspettative nei confronti della delegazione grillina in Parlamento. Aver fatto una campagna elettorale alle Politiche (lo Tsunami Tour, nome tutt’altro che dimesso) promettendo una rivoluzione copernicana e non poter far materialmente nulla (avendo buttato alle ortiche la possibilità di sostenere Bersani a palazzo Chigi, avendo la golden share dell’ipotetico governo: un’occasione incredibile per trasformare in realtà una parte del programma) ha deluso tanti che avevano votato Grillo nella speranza di un cambiamento radicale. E invece i parlamentari del MoVimento si sono accartocciati su loro stessi, parlando solo di scontrini, rimborsi spesa et similia. Quelli che dovevano “aprire il Parlamento come una scatola di tonno”, sono stati catturati dal Palazzo: dai suoi rituali, dai suoi regolamenti, dai suoi cavilli e anche dalla sua lentezza. I conquistatori sono stati conquistati. La forza rivoluzionaria si è trasformata in una formazione velleitaria, lontana dai problemi reali e formata da uomini e donne senza esperienza e senza preparazione. La mancanza di “malizia” nel saper gestire i media ha ridotto molto spesso i parlamentari grillini a macchiette, ridicolizzati come elefanti in una cristalleria, ma incapaci di fracassare nulla.
Altra ragione della sconfitta sono state le tante polemiche: le accuse di mancanza di democrazia interna (con Grillo sempre più padre – padrone assoluto, inarrivabile e non criticabile), le prime espulsioni e la conferma di parlamentari senza alcuna autonomia, hanno macchiato l’immagine cristallina di un movimento politico che era una speranza per tanti, l’ultima nella politica democratica, prima di perdere ogni speranza.
L’ultima spiegazione è da attribuire alla legge elettorale delle comunali. A differenza del Porcellum, questa prevede le preferenze quindi il voto è dato non solo e non tanto sulla base di un’idea politica, quanto piuttosto per una conoscenza o stima personale. Ed ecco dunque che con una legge che lascia maggiore spazio al candidato, non si ottengono i risultati che si otterrebbero con un sistema a liste bloccate, dove i candidati valgono poco o niente e si vota per uno slogan riuscito. Naturalmente Politiche e amministrative sono competizioni del tutto differenti, ma il sistema con le preferenze permette di scegliere più accuratamente il personale politico (clamorosi sono stati i casi di parlamentari grillini che non sapevano che eleggesse il Presidente delle Repubblica o ignoravano il numero dei componenti della propria camera di appartenenza).
(di Marco Di Giacomo - del 2013-06-26)
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