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LA POLITICA ITALIANA DOPO LE REGIONALI

Il centrosinistra si aggiudica 7 Regioni su 13 ma è Bossi il trionfatore

Indro Montanelli soprannominò Amintore Fanfani “Rieccolo” per via della straordinaria capacità del “cavallo di razza” della DC di sopravvivere ad ogni traversia politica e di smentire tutti coloro che lo davano ormai sul viale del tramonto. Lo stesso appellativo potrebbe essere utilizzato per Berlusconi. Nessuno, anche solo il giorno prima delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo, avrebbe ipotizzato un risultato tanto esaltante per la coalizione di centrodestra: il centrosinistra si è aggiudicato 7 Regioni su 13 in palio ma prima governava in 11 di esse mentre ora ha lasciato sul terreno tutto il Nord (avendo perso in Piemonte, Lombardia e Veneto) e tre delle Regioni più importanti del Centro-Sud, come Lazio, Campania e Calabria. I candidati di centrosinistra si sono aggiudicati Basilicata, Puglia, Liguria e le 4 storiche Regioni rosse, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Umbria.
IL CLIMA INFUOCATO DELLA CAMPAGNA ELETTORALE - Ma il risultato uscito dalle urne non è imprevisto per la sue dimensioni, piuttosto per la sorpresa che esso ha suscitato. Insomma può essere compreso appieno solo se immerso nel contesto politico che ha preceduto le regionali: la Seconda Repubblica ci ha abituato ad una politica rissosa e intrisa d'odio più che di idee e progetti ma nei mesi precedenti le elezioni si è arrivati allo zenit, o meglio, si è toccato il fondo.
Una campagna elettorale avvelenata da mille avvenimenti, alcuni dei quali derubricarli come semplici “episodi” sarebbe puro eufemismo: la sospensione dei programmi di approfondimento in Tv voluta dalla maggioranza, ma proposta dai Radicali, in Commissione di Vigilanza; le intercettazioni telefoniche (con tanto di accuse di concussione dalla Procura di Trani) tra Berlusconi, un commissario dell'Autorità per la Garanzie nelle Comunicazioni e il direttore del TG1 per mettere il “bastone tra le ruote” ad Annozero, la trasmissione di Michele Santoro; l'incredibile tragicommedia della presentazione delle liste del Pdl e le loro esclusioni nella Provincia di Roma e in Lombardia con le lunghissime sequele di ricorsi e controricorsi alla magistratura e il decreto interpretativo del Governo che è stato davvero la classica toppa peggiore del buco; infine lo scandalo degli appalti per il G8 alla Maddalena e le accuse lanciate contro Bertolaso, il “gioiello” del Governo Berlusconi, con tanto di onnipresenti intercettazioni pruriginose date in pasto all'opinione pubblica circa presunti favori sessuali concessi al Sottosegretario da imprenditori voraci e con pochissimi scrupoli.
Di fronte a queste condizioni di partenza, tutt'altro che positive, ci si aspettava un verdetto negativo per il Governo (anche tenendo presente i dati macroeconomici che vedono la disoccupazione salire e le imprese stentare per la crisi economica mondiale) come è successo in Francia dove Sarkozy ha ricevuto una sonora batosta alle elezioni regionali di marzo. E invece in Italia “Rieccolo-Berlusconi” ha di nuovo sovvertito i pronostici, dando alla coalizione di centrodestra un'altra vittoria che potrebbe essere foriera di grossi cambiamenti nel panorama politico italiano.
IL CENTRODESTRA DOPO IL VOTO Il verdetto delle urne ha innegabilmente mutato i rapporti di forza nel centrodestra. Il vero trionfatore delle elezioni è stato Bossi. La Lega ha piazzato suoi uomini, Zaia nel Veneto e Cota in Piemonte, in Regioni-chiave dimostrando una forza spaventosa al Nord (in Veneto ha raccolto il 35% staccando di parecchi punti gli alleati del Pdl) ma al contempo ha valicato il confine psicologico e politico del Po e attaccando territori prima quasi esclusivo appannaggio del centrosinistra (nella rossa Emilia ha raggiunto ben il 13,6% e in Toscana il 6,5%).
L'eccezionale risultato del Carroccio ha fatto capire che ormai al Nord non si può fare più nulla senza la Lega: è un messaggio chiarissimo per Berlusconi e il Pdl. In Lombardia i leghisti restano indietro ma solo di pochi punti, colmando quasi del tutto un gap che fino a pochi anni fa era ben più importante. I candidati della Lega sanno interpretare meglio degli altri le pulsioni popolari e, cosa più importante, fanno una politica “vecchia maniera” stando tra la gente sempre e non solo in prossimità delle scadenze elettorali. La loro presenza costante sul territorio è sinonimo di garanzia per il cittadino che si sente protetto da una forza politica che parla come lui e pensa come lui, buttando deliberatamente a mare il politically correct.
Spesso si è detto che Bossi cavalca le paure della popolazione contro gli stranieri, la globalizzazione e il nuovo che avanza. Ciò spesso risponde a verità e certe sue ricette un po' troppo semplicistiche lo confermano (ad esempio i dazi sui prodotti cinesi) ma è innegabile che queste paure esistono quindi spesso la Lega è l'unico movimento davvero in sintonia con la gente. Il Pdl rispetto alle politiche 2008 ha perso vari punti percentuali, specie al Nord dove ha risentito dello tsunami leghista, tuttavia non si può non sostenere che il partito (sebbene spesso lacerato da lotte intestine sia a livello centrale che locale) ha tenuto, anche in considerazione della difficile situazione economica. Le regionali hanno indubbiamente rafforzato Bossi che d'ora in avanti farà sentire in modo preponderante la sua voce per portare finalmente a casa le riforme, a partire da quella del federalismo fiscale. Ma anche su tutto il resto si dovrà discutere: l'anno prossimo si voterà a Milano e il leader leghista, tra il serio e il faceto, ha prenotato la poltrona di primo cittadino. Berlusconi è avvisato...
IL CENTROSINISTRA DEVE “CAMBIARE PASSO” Le elezioni sono state un brutto colpo per l'opposizione. Non in termini numerici in quanto Pd e Italia dei Valori raccolgono all'incirca lo stesso risultato delle elezioni europee del 2009, quanto sopratutto come segnale. Si sapeva che non era possibile, nemmeno lontanamente, eguagliare il risultato delle regionali 2005 quando l'onda lunga che portò Prodi l'anno successivo a Palazzo Chigi fece sì che il centrosinistra vincesse in 11 Regioni su 13. Si sapeva che stavolta il verdetto sarebbe stato meno dolce ma nessuno immaginava una coalizione praticamente assediata nel “ridotto appenninico” rappresentato dalle Regioni rosse.
Bersani e Di Pietro si aspettavano un segnale di cambiamento, il primo dal 2008. E invece niente. Si aspettavano l'arrestarsi della marea berlusconiana che in pochi anni aveva sommerso Prodi e i governi regionali del Friuli-Venezia Giulia, dell'Abruzzo e della Sardegna. E invece no, perché Berlusconi è ancora più vivo che mai.
Ma la delusione maggiore è arrivata dal sostanziale fallimento del laboratorio politico iniziato con l'Udc dopo un lungo corteggiamento: la Puglia doveva essere la prova generale dell'alleanza ampia che, facendo perno sul Pd, spaziava dalla sinistra radicale e all'Italia dei Valori e Casini. Ma questo progetto è completamente saltato per via della vittoria di Nichi Vendola alle primarie per la designazione del candidato presidente pugliese. Casini aveva detto che mai avrebbe appoggiato Vendola ed è stato di parola. In Piemonte l'Udc ha appoggiato il centrosinistra ma la sconfitta della Bresso (per via dell'incredibile 4,1% raccolto in questa Regione dal Movimento a Cinque Stelle di Beppe Grillo, voti sostanzialmente rosicchiati alla sinistra) ha vanificato anche stavolta il progetto di combattere la destra ricorrendo a tutti i partiti estranei al Governo nazionale.
Queste frustrazioni si sono materializzate nella lettera inviata a Bersani da 49 senatori Pd per chiedere di “cambiare passo”. Proprio questo è il punto: il Pd ha tenuto ma a Bersani, al primo appuntamento elettorale, si chiedeva sopratutto di invertire la rotta e dare una scossa alla sinistra. Si voleva allargare la coalizione a Casini ma lo spettro di un'altra armata Brancaleone come quella che appoggiò Prodi nel suo secondo Governo è sempre dietro l'angolo. Il segretario non corre rischi perché nessuno nel partito si sogna di mettere in crisi una leadership raggiunta a costo di gravi scissioni interne, ma se non si vedranno subito dei cambiamenti le tensioni interne aumenteranno e anche la competizione con gli agguerriti alleati dell'Idv si farà sempre più rude.
LA SFIDA DELLE RIFORMEL'occasione è di quelle irripetibili. D'ora in avanti, fino al 2013, non ci saranno appuntamenti elettorali fondamentali (ci saranno certo le elezioni in importanti città come Milano e Napoli ma certo non di livello nazionale) e questo lasso di tempo dovrebbe essere utilizzato dai partiti finalmente per mettersi intorno ad un tavolo e fare le riforme. Il Paese ha già perso troppo tempo: la Commissione bicamerale presieduta da D'Alema risale al 1997 e da allora si è discusso molto ma si è fatto poco o niente. I veti incrociati e le scadenze elettorali hanno ingessato la situazione.
Ora a parole tutti sembrano intenzionati a cambiare ma la reale volontà di discutere tra le coalizioni per arrivare ad un accordo appare incerta mentre ancor più fosco appare l'orizzonte all'interno dei grandi partiti dove le diverse anime hanno idee differenti sul modo di procedere e addirittura sull'impianto stesso delle riforme.
Berlusconi ha annunciato il federalismo fiscale e addirittura una riforma dell'ordinamento istituzionale della Repubblica: un semipresidenzialismo alla francese ma a turno unico (il doppio turno favorirebbe la sinistra), la riduzione dei parlamentari, abolizione del bicameralismo perfetto con la creazione di un Senato delle Regioni e di una Camera politica di fronte alla quale il Governo dovrebbe presentarsi per chiedere la fiducia. Inoltre vorrebbe riformare la giustizia e la Corte Costituzionale. Tutti questi progetti rappresentano altrettanti nervi scoperti per l'opposizione che non accetterà mai un nuovo impianto istituzionale a scatola chiusa, mentre il Presidente del Consiglio, viceversa, non accetta i tempi lunghi di un'estenuante discussione in Parlamento, con la possibilità che il vento riformatore passi con l'estate e il tutto verrà sepolto in qualche commissione.
Ma la tentazione di procedere con i soli voti della maggioranza (andando incontro quindi, come nel 2006, al rischio di un referendum confermativo) dovrebbe essere scongiurato dalla consapevolezza che le riforme investono anche le generazioni future. Di conseguenza si deve necessariamente trovare un accordo almeno tra i grandi partiti. L'Italia è un pachiderma in un mondo di ghepardi. Dobbiamo cambiare per continuare a poter dire la nostra in uno scenario sempre più competitivo.
Le riforme sono indispensabili: tocca ai partiti trovare la lungimiranza per capirlo e la responsabilità per farle insieme.

(di Marco Di Giacomo - del 2010-04-15) articolo visto 4801 volte
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