IL RISCHIO IDROGEOLOGICO IN ITALIA
Il termine rischio idrogeologico riassume gli effetti di una vasta gamma di processi morfologici: frane, alluvioni, inondazioni, nubifragi, nevicate, valanghe, erosioni costiere, crisi idriche, trombe d’aria, etc. Processi che alterano il paesaggio naturale in tempi relativamente rapidi, spesso con un impatto disastroso sul territorio coinvolto.
Il rischio idrogeologico è fortemente condizionato dall’azione dell’uomo e dalle continue modifiche del territorio che hanno sia incrementato e favorito tali fenomeni, che aumentato la presenza di beni e di persone lì dove questi si sono poi manifestati anche con effetti catastrofici.
Frane ed alluvioni costituiscono per il territorio italiano tipologie di eventi naturali estremamente diffusi, risultando quindi, una delle cause di rischio principali sull’assetto sociale ed economico del Paese. Considerando gli ingenti danni arrecati ai beni e alla vita umana, è comprensibile lo stato di attenzione che si pone nei confronti di tale rischio. Secondo i dati dell’Unesco, il 41% delle vittime per catastrofi naturali sono dovute a fenomeni idrogeologici.
Dal 1918 l’Italia è stata colpita da oltre 5 mila grandi alluvioni e più di 11 mila frane, con una media annua di circa 220 fenomeni. Dal rapporto annuale del 2009 di Legambiente e del Dipartimento della Protezione Civile sulle attività delle amministrazioni comunali per la mitigazione del rischio idrogeologico risultano ben 5581 i comuni italiani (circa il 69% del totale) a potenziale rischio idrogeologico, di cui di cui: 1.700 a rischio frana; 1.285 a rischio di alluvione e 2.596 a rischio sia di frana che di alluvione. Il 100% del territorio di Calabria, Umbria, Valle d’Aosta è a rischio idrogeologico, mentre nelle Marche riguarda il 99% e in Toscana il 98%. Nello specifico, le regioni con le più alte percentuali di comuni con abitazioni in zone a rischio sono la Sicilia (93%) e la Toscana (91%). In Sardegna c’è la maggior percentuale di comuni con interi quartieri costruiti in zone a rischio, mentre in Sicilia e Toscana si segnala anche il più elevato numero di comuni con insediamenti industriali e produttivi in aree esposte a rischio idrogeologico.
Lo scorso ottobre 2010 sono stati resi noti in Campidoglio i dati del primo Rapporto sullo stato del territorio italiano, realizzato dal centro studi del Consiglio Nazionale dei Geologi (CNG).
Dal rapporto, emerge che circa 6 milioni di italiani occupano un’area di 29.500 km2 considerata ad “alto rischio idrogeologico”; gli edifici a “rischio frane” e “alluvioni” sono 1.260.000, di cui oltre 6 mila scuole e 531 ospedali. La spesa affrontata per sanare le cause dovute al dissesto idrogeologico e ai terremoti dal 1944 al 2009 è stata stimata intorno a 213 miliardi di euro.
Secondo il rapporto del Consiglio Nazionale dei Geologi, della popolazione a rischio 1 milione di persone vive in Campania, 825 mila in Emilia Romagna, oltre 500 mila tra Piemonte, Lombardia e Veneto.
Il territorio italiano è reso ancora più “fragile” dall’abusivismo e dall’urbanizzazione “irrazionale”. In molte regioni, pur apparendo ridotta la percentuale di comuni interessati dal fenomeno, l’entità del rischio è comunque preoccupante. In Sardegna e in Puglia, infatti, nonostante gli eventi risultino di minor frequenza, le frane e le alluvioni degli ultimi anni hanno provocato vittime e danni notevoli. Da uno studio condotto dal Ministero dell’Ambiente e dall’Unione Provincie d’Italia, risulta che oltre a tanti piccoli comuni, anche molte grandi città italiane sono considerate a rischio idrogeologico.
Il Rischio (R) è definito come: «l’entità del danno atteso in una data area e in un certo intervallo di tempo in seguito al verificarsi di un particolare evento calamitoso».
In termini analitici, il rischio idrogeologico è espresso dalla seguente espressione R = H x V x E, nota come equazione del rischio che lega pericolosità (H), vulnerabilità (V) e esposizione (E).
La pericolosità (H) tiene conto delle componenti naturalistiche ed esprime la probabilità che in una zona si verifichi un evento dannoso di una “determinata” intensità entro un “determinato” periodo di tempo, definito tempo di ritorno. La pericolosità è dunque funzione della frequenza dell’evento. In certi casi, come per le alluvioni, è possibile con una approssimazione accettabile stimare la probabilità di accadimento per un definito evento entro il periodo di ritorno.
Nel DPCM del 29/09/1988 sono riportate per il “rischio idraulico” le seguenti indicazioni qualitative:
aree ad alta probabilità di inondazione (tempi di ritorno indicativi tra 20 e 50 anni);
aree a moderata probabilità di inondazione (tempi di ritorno indicativi tra 100 e 200 anni);
aree a bassa probabilità di inondazione (tempi di ritorno indicativi tra 300 e 500 anni).
In altri casi, come per alcuni tipi di frane, tale stima è di gran lunga più difficile. Si può dire che la massa spostata, da sola, non dà indicazioni sufficienti per la valutazione della Pericolosità, intesa come intensità, in quanto deve essere messa in relazione alla velocità di spostamento e allo stato di attività del dissesto.
Volume, velocità e attività sono dati la cui valutazione è molto incerta e dipende, spesso, dai criteri soggettivi dei tecnici rilevatori.
Queste difficoltà comportano l’impossibilità di esprimere il “fenomeno frana” con un singolo parametro fisico che ne rappresenti l’intensità: di conseguenza, occorre procedere con metodi deduttivi. Una frana grande è più intensa di una frana piccola; una frana attiva è più pericolosa di una non attiva.
Il citato DPCM 29/09/1988 fornisce per le “frane” le seguenti indicazioni:
pericolosità alta per frane veloci;
pericolosità media per frane lente ma molto grandi e/o profonde;
pericolosità bassa per frane lente non grandi e/o superficiali;
In questo caso, sparisce il termine riferito al tempo di ritorno e quindi il nesso statistico.
La vulnerabilità (V), indicatore del tipo vero/falso, esprime in che misura un bene può essere colpito da un certo tipo di evento. Tenendo conto degli elementi antropici, indica l’attitudine di una determinata “componente ambientale” (popolazione umana, edifici, servizi, infrastrutture, etc.) a sopportare gli effetti in funzione dell’intensità dell’evento. La vulnerabilità rappresenta il grado di perdite di un dato elemento o di una serie di elementi risultante dal verificarsi di un fenomeno di una certa intensità.
L’esposizione (E), che si riferisce al grado di danno che può subire un bene colpito da un evento, sta ad indicare l’elemento che deve sopportare l’evento. È rappresentato: dal numero di presenze umane o dal valore delle risorse naturali ed economiche presenti esposte ad un determinato pericolo. Tale valutazione viene fatta in funzione del valore del bene che non può essere assoluto: una strada secondaria può costituire l’unica via di accesso ad un nucleo abitato che va salvaguardato in caso avvenga un’interruzione; uno spiazzo può risultare più o meno importante se è destinato o meno ad accogliere strutture di protezione civile; un terreno coltivato assume importanza diversa a seconda del tipo di coltura e del contesto socio-economico.
I fattori di pericolosità, vulnerabilità ed esposizione spesso presentano difficoltà di parametrizzazione. In tal caso si può ricorrere a delle sintesi parziali delle informazioni valutando il
Rischio specifico (Rs) o il
Danno (D). Il primo (Rs), rappresenta il grado di perdita atteso quale conseguenza di un particolare fenomeno e può essere espresso da Rs = H x V. Il secondo (D) indica le potenziali conseguenze derivanti all’uomo, in termini sia di perdite di vite umane, che di danni materiali agli edifici, alle infrastrutture ed al sistema produttivo, nel caso del verificarsi dell’evento temuto: D = V x E.
(di Daniele Berardi - del 2010-12-14)
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