Il peso di queste due figure sulla metà sinistra del quadro è equilibrato dallo slancio della figura di Venere sulla destra, accentuato dal movimento della mano che solleva il bruciatore dell’incenso, simbolo del fuoco e della passione. Le tre scene rappresentate sul sarcofago si riferiscono ciascuna alla figura più vicina: la cavalla indomata, a Polia; il cespo di rose annaffiato dal liquido della fonte, e l’accolito che prepara i lacci per la cavalla, a Cupido; la scena con Adone e Marte, a Venere. Ma questa simmetria allegorica si giustifica, anzi si esalta anche sul piano dello stile.
Infatti i volumi solidi e sporgenti della cavalla compensano gli effetti serici del panneggio della donna; lo sbocciare del roseto ha una ripresa nell’albero che fa da sfondo a Cupido; il gioco aspro dei muscoli della scena della fustigazione equilibra le molli rotondità della venere ignuda. La parabola dell’amore e del matrimonio, che fa del quadro un dono nuziale, è trasfigurata da Tiziano in una sinfonia di colori e di forme, nella quale le idee diventano donne e l’Olimpo classico ha per sfondo un delizioso paesaggio del Cadore, la patria dell’artista, rievocata con acuta nostalgia.
La donna ideale ha una bellezza opulenta intrisa di sole, e le donne tizianesche di questo periodo sembrano rifarsi tutte a un’unica modella, o a modelle diverse che il pittore riduceva sempre a un tipo unico, che doveva essergli particolarmente caro: è la classica bellezza italiana, icona veneziana in Veneto come canicattinese in Sicilia, opulenta, tenera, con un fondo sanamente popolano, comune tanto alla gran dama quanto alla plebea.
In una descrizione della Galleria Borghese del 1650, la tela del 1515 è indicata come Tre Amori. Ma è nominata per la prima volta nel 1613, con il titolo di Beltà ornata e beltà disordinata, dal Francucci. La denominazione Amore Profano e Amore Divino si legge invece per la prima volta nell’inventario del 1693, e torna cent’anni dopo nella forma definitiva di Amor Sacro e Profano, nella descrizione del Vasi del 1792. In questo dipinto ad olio cm 118×278 la contrapposizione di sacro e di profano non doveva essere nelle intenzioni del pittore: nel Rinascimento, infatti, non vi era più il concetto medioevale di associare il nudo alla passione profana, alla voluptas e al peccato. Il nudo, anzi, era la forma più nobile e serena della divinità.
Il paesaggio nel quale è ambientata l’allegoria dell’Amor Sacro e Profano è uno dei più vivi e palpitanti di tutto il Cinquecento veneziano. Esso non è più un semplice fondale alla scena, come usava nel Quattrocento. Giorgione ha ormai insegnato agli artisti quali risorse può offrire la veduta naturale alla composizione pittorica. Tiziano, suo allievo, ha appreso la lezione del maestro e non manca mai di dare alle sue scene sacre e profane un’ambientazione precisa, togliendola dalla natura che lo circonda.
Sono rappresentati i ricordi del Basso Cadore, dove Tiziano era nato: le case col ripido spiovente e la scena di caccia in riva al lago montano. L’angolo con le case compare riprodotto alla rovescia, anche nella Venere di Giorgione e nel Cristo con l’Adultera di Tiziano. Nello sfondo di destra c’è un lago circondato di case, con una chiesa dall’aguzzo campanile nordico, che richiama San Vito di Cadore.
La donna sontuosamente vestita che siede sul bordo sinistro della fontana è autentica dea dell’Olimpo tizianesco. Per molto tempo gli studiosi hanno discusso se essa fosse l’amore sacro, raccolto nel suo spiritualismo, o l’amore profano, arricchito dagli incanti materiali del lusso veneziano. In realtà, sacro e profano si conciliano in questa figura pensosa, quintessenza di quelle creature impastate egualmente di carnalità e nobiltà, di cui solo il pennello solare di Tiziano ha posseduto il segreto”.
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