Perché scrivo? Per stare bene. Perché altri lo facciano e le poesie restino il rifugio sicuro pieno di potenza? Perché alcuni versi tuonino ancor oggi vigorosi a scalfire le vie, i banchi di scuola, l’immaginario e gli spartiti di discorsi, in metafore?
Perché la parola spiega la realtà che altrimenti entrerebbe in noi con algoritmi in modo univoco ma no, non siamo computer né macchine.
L’uomo parla, comunica, legge ciò che vede e prova in maniera personale e dà contenuto alla parola che veste la forma, che veste la vita, che veste lo spazio e il tempo.
Il linguaggio è essenza di una natura non prettamente animalesca neppure meccanica, la parola è indice di quel seme misterioso e libero di cui l’umanità è dotata. E i poeti abitano il linguaggio più d’ogni altro essere perché raccontano esperienze comuni in modo particolare pur non essendo necessariamente protagonisti di vite particolari. La quotidianità che pone la visione per altro, su altro e decolla in quel naufragar dolce che svetta nell’infinito dalla siepe dietro casa.
I poeti si inseriscono lì, in quel terreno delicato, fervido, potente che è l’arte della parola tenendo vivo il problema della caducità umana in relazione al divenire, ponendosi di fronte ai grandi problemi di senso, al senso d’eterno innato, agli interrogativi sul bene, sul male, su Dio, sul senso della felicità, sul senso del dolore, sul senso dello stare al mondo, sull’amore. L’arte prova ad indagare la vita, le sue forme, le sue creature, il suo esistere e declinarsi. E lì versifica e segna le epoche, crea riferimenti feroci, sempreverdi. Accetta di mettere a fuoco l’esistenza, accettandone i paradossi, le buche, le tortuosità e la declina, ne parla, la consegna al bianco del foglio che diventerà lettera per occhi e cuori.
Dolce canto che m’attraversi
sappi travolgere
quando sarò annebbiata senza te
quando mi parrà di vivere
nel grigio dell’anima.
Sappi ergere.
Ridestare usignolo
dell’anima,
voce di verità
poesia dolce
a lenire.
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