Cultura

Ricordi confezionati

Anche quel giorno la porta automatica del supermercato si aprì. E ancora una volta Giuseppe accennò un sorriso chiedendosi come mai quella specie di accoglienza trionfale destinata a lui che aveva in tasca sì e no 20 euro per la spesa di una settimana intera.

Per arrivare al supermercato quasi gli veniva il mal di mare (a lui che il mare lo aveva visto appena tre volte in tutta la sua vita) girando attorno alle nuove rotonde poggiate come enormi boe in mezzo a quella che prima era tutta campagna, una campagna uguale alla sua.

Giuseppe entrava a testa bassa, andava in fretta verso alcuni scaffali, sempre quelli. Metteva nel cestino sempre le stesse cose e correva alla cassa sperando che non ci fosse nessuno prima di lui per non aspettare stando in piedi a guardare nel vuoto. Appena uscito respirava forte, sollevato.

Non gli piaceva entrare in quel mondo dalla luce intensa, accecante per un contadino come lui abituato alle ombre dei vigneti, in quel mondo dove tutto era talmente ordinato e moderno da essere l’esatto contrario della sua casa, la casa in cui erano vissuti suo nonno e suo padre e chissà quanti prima di loro. dove le galline razzolavano nell’aia e dove la stalla, ora malinconicamente vuota, era una stanza come tutte le altre.

Soprattutto, detestava quel luogo perchè era lì che il dolore per la morte della moglie si faceva più amaro, come se una mano enorme gli spremesse il corpo e il corpo fosse una spugna intrisa di veleno.

Il dolore non lo assaliva così neppure nella casa dove aveva visssuto con lei per cinquant’anni o nella piazza del paese che ogni domenica avevano attraversato insieme per andare a Messa. Neppure davanti alla sua tomba, nella parte nuova del cimitero, la terza, partendo dal basso, nella sesta fils, con i fiori rinsicchiti a penzoloni i cui lori pur sbiaditi ugualmente risaltavano sull’intonaco bianchissimo.

Al supermercato i ricordi si affollavano veloci, i rimpianti lo assalivano con tenacia, le angosce lo opprimevano con violenza.

Perchè era il luogo dove vedeva cambiare il mondo molto di più che alla televisione che ormai neppure accendeva, dove non sarebbe mai entrato se avesse avuto ancora la moglie al suo fianco.

Tra gli scaffali vedeva quello che una volta preparava sua moglie e allora ogni prodotto confezionato era un ricordo, ogni scaffale un rimpianto.

Tutto era avvolto, immerso, sprofondato nella plastica e non si sapeva dove finiva quel che si sarebbe dovuto mettere in bocca e cominciava quel che si sarebbe dovuto buttare. Una volta Giuseppe buttava i gusci delle uova, le bucce delle patate, le ossa di pollo succhiate fino a renderle lucenti come avorio. Adesso, dopo mangiato, buttava solo plastica.

Ma una volta non c’era la plastica, non c’erano i supermercato, non c’erano i parcheggi e le rotende. Invece c’era sua moglie in cucina al sabato pomeriggio.

Già, il sabato pomeriggio, quando sua moglie faceva la sfoglia per le lasagne o i cappelletti e la pasta di tutta la settimana e lui andava in giro per i campi. Cosa darebbe ora per rivederla nuovamente tirare la sfoglia.

Quella sfoglia che lui, anche nel pieno delle forze, quando riusciva a sollevare una balla di fieno da solo, non sarebbe mai stato capace di tirare così fine fine, senza che mai e poi mai si attaccasse, che una seta preziosa attraverso la quale filtrava la luce. E gli pareva di vederla ancora, quella sfoglia, controluce, quandp la moglie la sollevava per tirarla ancora più fine.

Avrebbe dovuto seppellire sua moglie con l’asse e il mattarello per la sfoglia, la rotella per tagliare i cappelletti, avrebbe dovuto seppellirla con addosso il grembiule bianco, come un tempo i faraoni si facevano seppellire con la loro armatura, il carro da battaglia, le armi da parata, i loro ornamenti più preziosi.

Nello scaffale guardava i cappelletto confezionati e sorrideva amaramente perchè gli veniva davvero l’acquolina in bocca ricordando quelli che la moglie gli preparava per il pranzo della domenica. Che strano vederlì lì, chiusi nella plastica, in un giorno qualsiasi della settimana.

I cappelletti erano cibi dei giorni di festa! Erano loro a testimoniare, più che il calendario stesso, più che la Messa, che era festa. Come era possibile, si chiedeva, mangiarli in giorni banali, come il lunedì o il martedì? Ironicamente si rispondeva che forse sulla confezione era prescritto di non mangiarli assolutamente in un giorno feriale. Forse alla cassa dal lunedì al venerdì neppure li facevano passare.

Nello scaffale sotto i cappelletti confezionati trovava anche i tortelli di zucca. Da quanti anni non mangiava i tortelli? E vicino ai tortelli, i gnocchi. Vedeva le marmellate, le conserve, i dolci, le torte, gli arrosti, i brodo. Sapeva fare tutto, sua moglie: le marmellate e le conservw, i dolci e le torte, gli arrosti e il brodo, i tortelli di zucca e i gnocchi.

Dopo tutti questi ricordi mescolati insieme ai sapori e agli odori di un tempo, fremeva per uscire, per riprendere aria, per tornarsene a casa lasciandosi alle spalle i cento parcheggi e le mille rotonde che avevano devastato la campagna.

Faceva la fila alla cassa, quasi scalpitando. come se stesse fugendo, dopo aver preso poche cose avvolte nella plastica e qualche verdura perchè non aveva più voglia neppure di coltivare l’orto.

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Pubblicato da
Pino Ezio Beccaria

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