Il titolo del primo album di Moderno, Storia di un occidentale, viene volutamente scritto in caratteri cinesi sulla copertina. La scelta del cantautore romano – all’anagrafe Federico Antonio Petitto, professore di filosofia quando veste i panni di persona “normale” – vuole ironizzare sulla cultura occidentale di cui fa parte, che si ritiene l’unica fonte di civiltà e ha la pretesa imporre i suoi valori all’intero pianeta. L’intero disco – in uscita il 27 gennaio 2021 su tutte le piattaforme digitali – è il racconto di un individuo vissuto in un’epoca che lo stesso autore definisce “post-moderna”, riprendendo l’espressione del filosofo francese Jean-François Lyotard. Un’epoca senza grandi ideali a cui votarsi, dove anche le relazioni sociali e sentimentali sono destinate a naufragare, per paura di scoprirsi…
Immaginando di portare “Storia di un impiegato” di De Andrè nella società di quasi cinquant’anni dopo, Moderno non si assolve dalle proprie responsabilità e prova a rilanciare un nuovo immaginario comune, in cui rimettersi in gioco e ritrovarsi: perché qualunque sia la nostra provenienza, apparteniamo a un’unica e grande Storia.
Moderno ci ha gentilmente concesso un’intervista.
“Storia di un occidentale” è il tuo primo album, di che cosa si tratta?
L’album è stato “pensato” qualche anno fa, raccogliendo esperienze della mia crescita. Molte canzoni sono state scritte addirittura tra il 2014 e il 2017, poi riarrangiate e rinnovate in studio. Mi sono accorto che le mie disavventure erano perfettamente in linea con quelle di un’epoca che ha perso molti punti di riferimento. Nel disco si narra di incertezze sentimentali, sociali ed esistenziali, ma soprattutto di un bisogno di “fare tutto” e di farlo con qualcuno!
Il titolo viene volutamente scritto in caratteri cinesi sulla copertina, perché?
L’intento è provocatorio. Un occidentale legge quel titolo e pensa che si tratti di qualcosa di lontano da lui, che non lo riguarda. Invece parla proprio di lui. L’occidentale crede da sempre di essere l’unico centro della storia umana, ma ci sono mille altre culture e tradizioni che valgono tanto quanto. Mi piacerebbe che l’ottica con cui guardare il mondo fosse più universale, a maggior ragione in questo delicato periodo storico. Siamo tutti parte di un puzzle da miliardi di pezzi e c’è bisogno del contributo di tutti.
Cosa vuoi far trasparire con questo lavoro discografico?
È un lavoro ancora marcatamente it-pop, frutto appunto di un approccio al lavoro che risale a quasi tre anni fa. Ora ho messo più a fuoco il sound che già negli ultimi pezzi di questo disco devia su altri lidi. Spero che si colga intanto il “mondo” che richiamo con i testi, cioè un mondo fatto di singoli individui, individui fragili e pessimisti, che hanno bisogno banalmente di aprirsi e di cercare un destino comune. Nel prossimo lavoro mi sposterò su un cantautorato molto più farcito di folk e di elettronica minimale.
Come nasce il tuo progetto musicale?
Ho iniziato a suonare nelle band: prima negli Io non sono Bogte suonavo il basso, poi in Unminutodisilenzio ero il cantante e frontman ma la scrittura era a quattro mani. Ho trovato a fatica una mia dimensione solista, che giaceva da tempo in agendine, fogli e foglietti. Unminutodisilenzio è diventato “Unminuto”, in seguito “Federico Moderno”, per poi finalmente trovare una quadra. “Moderno” nasce per rappresentare la realtà in un modo che secondo me non esisteva ancora.
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