I territori dei miei desideri stanno radunandosi sempre più attorno a casa. Così penso alla vecchia chiusa nella sua capanna in montagna in attesa che passi la luna al di là della fessura medievale della sua finestra.
Il silenzio diventa il nutrimento della vecchiaia. Il mio studiolo nella casa di Campagnola Emilia ormai è un continente. Con gli anni si è riempito di oggetti comprati per il mondo ma ci sono anche sassi e grappoli di roba arrugginita che contribuiscono a limitare sempre più il mio viaggio verso le finestre per vedere la grande valle quando nevica e, in lontananza, i monti che s’imbiancano.
Tutte le volte che sono depresso, ho bisogno di miseria, di odori di legni fradici e di sapori acerbi di frutta rubata anzitempo. Mi penso seduto in una capannaccia a sorvegliare un mucchio di patate.
É bello andarsene dietro un odore. O mi metto a camminare lungo le strade senza asfalto o mi lascio cadere l’acqua della pioggia in bocca. La ricchezza non la cerco perché non riuscirà mai a considerarmi. Non l’avevo nell’infanzia e quindi non mi appartiene.
Le uniche cose che si possiedono per sempre, sono quelle che hai avuto da ragazzo. Anche la lunghezza di una strada non sarà mai lunga com’erano i dieci chilometri che dividevano e dividono da Milano. Dove abitavo, dal parco di Monza. Per morire con un po’ di tranquillità bisogna rientrare in quelle misure e dentro quei poetici errori. Noi siamo già stati in Paradiso e spesso, per lo meno io, ci torno quando entro nei labirinti della memoria dove vive la mia infanzia.
Qui a Campagnola, per riavvicinarmi a quel tempo vado a cercare un rumore di latte arrugginite colpite dalla pioggia o un odore di una viola che i vecchi tenevano in bocca e anche quel tanfo misto di nafta, petrolio e grassi scuri che mi arrivava addosso da qualche vecchia officina.
Sono stato alla Pietra di Bis Mantova, il paesino quasi abbandonato che spaventa di tanto in tanto la nostra valle con i suoi piccoli crolli. I muri che restano in piedi vivono con le ombre di chi capita a curiosare. Giorni fa c’eravamo anche noi: io e Rubens. Come mi sono accorto che la mia ombra era così piena di tenerezza e conforto per quei muri sono passato a imprimerla per qualche momento su tutte quelle piccole rovine. Poi mi sono riposato sul bordo di un lungo abbeveratoio senza acqua in mezzo a ciuffi alti di erbe secche con grappoli si semi sulle punte pendule.
In fondo al calanco viveva un vecchio che in autunno aspettava la caduta delle foglie degli aceri che per giorni e giorni illuminavano la valle. E stava seduto con la schiena appoggiata al muro della baracca. Finchè, per un colpo di vento cominciava questa lunga pioggia di sangue. Così il bosco di aceri piano piano diventava un groviglio di rami nudi.
A volte questa pioggia di foglie capitava di notte e lui dal letto ascoltava gli scricchiolii leggeri che gli arrivavano da tutta la valle.