SIENA (SI) – In queste ultime settimane si è molto discusso della proposta della CE di autorizzare la produzione di vini totalmente o parzialmente dealcolati che ha scatenato caos e indignazione. L’enologo senese, Jacopo Vagaggini, spiega tecnicamente in cosa consiste, le conseguenze e soprattutto il perché la parola “vino dealcolato” fa così paura. Spiega che la dealcolazione è una pratica ammessa per legge nella misura massima di 2% alcool (corrispondente al 20% del volume totale) tramite due metodi fisici: l’osmosi inversa, in cui il vino passa attraverso membrane semi-premiabili a pressioni molto elevate fino a 40 atmosfere, da cui si estrae una miscela di acqua ed alcool. L’alcool viene poi separato per distillazione; l’acqua rimanente, cosiddetta acqua di vegetazione, deve essere reincorporata nel vino originale per abbassarne la gradazione alcolica. Quest’ultimo passaggio è stato a lungo incriminato, erroneamente scambiato per un annacquamento che, al contrario, implica un aumento di volume tramite aggiunta di acqua con conseguente diluzione e abbassamento di gradazione alcolica.
In alternativa c’è la tecnica dell’evaporazione sottovuoto. L’alcool etilico ha una temperatura di evaporazione di circa 78°C, più bassa rispetta a quella dell’acqua (100°C); lavorando sottovuoto, che abbassa la temperatura di evaporazione, a circa 20°C si riesce quindi ad eliminare l’alcool senza rimuovere l’acqua. Questa pratica è efficace, ma impoverisce il vino di molti profumi che, essendo molecole volatili, vengono persi nel corso dell’evaporazione e dell’aspirazione sottovuoto. Normalmente queste tecniche vengono applicate su una piccola frazione di vino, che viene poi reincorporata nella massa principale, abbassandone la gradazione. Nel caso di un vino dealcolato, invece, l’intera massa di vino deve essere trattata con un forte impatto sia aromatico che strutturale. L’equilibrio del vino è infatti determinato da tre principali componenti: acido, dolce e amaro. Se si assaggia l’alcool puro a 95° è dolce.
Da qui nasce infatti una dicotomia: i vini molto alcolici, oggi in forte crescita come conseguenza del global warming, sono spesso mal visti da alcuni mercati ma apprezzati da critica e consumatori che gradiscono la dolcezza e l’untuosità che l’alcool apporta. La rimozione dell’alcool nel vino non è quindi una pratica indolore dato che incide fortemente sulla struttura del vino aumentandone l’acidità e l’astringenza. Per riportare l’equilibrio, è necessario quindi aggiungere prodotti dolcificanti come mosto concentrato (zucchero), mannoproteine e gomma arabica, che non solo hanno limiti legali di dosaggio ma conferiscono una sensazione meno autentica e raffinata. È con buona probabilità necessario anche ridurre l’acidità e la tannicità tramite aggiunta di disacidificanti e chiarificanti, che hanno un ulteriore effetto di impoverimento della struttura del vino.
«Non c’è dubbio che un vino dealcolato sia un prodotto molto artefatto, lontano dalla sua origine e dai suoi tratti distintivi» sottolinea l’enologo Jacopo Vagaggini. «Nell’affrontare questa tematica dobbiamo prendere coscienza di questo aspetto: il vino dealcolato è un prodotto diverso che assolve a un ruolo diverso. Viviamo in un mondo sempre più variegato dove la diversità non è più una minaccia, ma un punto di forza che crea nuove possibilità di mercato: anche nelle aziende vinicole la gamma di vini tende ad ampliarsi sempre di più per soddisfare le più svariate richieste. C’è un altro aspetto importante nella questione: come sono solito dire, è spesso nell’estremo che si trova l’equilibrio. Il vigneto a 20.000 ceppi per ettaro nel mio polo sperimentale è un estremo che ha difatti smosso tante conoscenze e tante anime; oggi vedo svariati produttori piantare vigneti ad alberello a densità elevate. È così probabile che il vino dealcolato smuova degli equilibri, spingendo il mercato verso vini meno alcolici, un aspetto su cui lavoro da tempo su molti fronti sperimentali: nuove forme di allevamento, nuovi cloni e soprattutto portinnesti più resistenti alla siccità, prodotti e lavorazioni che aiutano la pianta a tollerare meglio il caldo e lo stress. Da alcuni anni sto lavorando su nuovi ceppi di lievito in grado di allungare la prima fermentazione del vino, chiamata glicero-piruvica, che sottrae parte dello zucchero destinato alla fermentazione alcolica. Questo porterebbe ad una diminuzione dell’alcool complessivo nel vino, aumentando invece la concentrazione di glicerolo, molecola responsabile della cosiddetta “sucrosité”, ossia la dolcezza senza zucchero, considerata dai francesi uno dei requisiti più importanti di un grande vino».
Forte di un bagaglio scientifico e culturale che combina background famigliare, una formazione ad Oxford e Bordeaux, esperienze in Francia, nel cuore dell’enologia mondiale, e in Argentina, il giovane enologo senese Jacopo Vagaggini si presenta nel mondo del vino con personalità, talento e impronta innovativa. Valore aggiunto alla sua professione di enologo, che lo ha già visto creare vini di fama mondiale, è il polo sperimentale dove studia e testa tecniche, metodi e prodotti dalla vigna alla cantina. Il suo motto: “Il vino è fatto di 85% acqua, 13% alcool, 1% glicerolo; vi svelerò i segreti del rimanente 1% che renderanno unico il vostro vino”.